L’America di Walmart e l’America di Trump
Come i racconti di Mary Miller fanno luce sulla classe operaia statunitense
Mary Miller è una che in poco tempo ne ha fatta di strada. Nel 2005 viveva e lavorava a Meridian, una cittadina del Mississippi centoquaranta chilometri a est di Jackson, dov’è nata e cresciuta. Benché avesse ventisette anni, a differenza di gran parte dei laureati in scrittura creativa non aveva ancora mai scritto narrativa né seguito laboratori. Ma scriveva poesia. «Ero una poetessa terribile» mi dice ridendo. «Ma proprio pessima. Peccato che non lo sapessi». In cerca di pareri e indicazioni ha cominciato a postare alcuni suoi componimenti nel «Virtual Studio» di Zoetrope, una community online per aspiranti scrittori. «Mi dicevano, Be’, la poesia fa schifo ma potresti trasformarla in flash fiction» racconta Mary. «E mi sono innamorata di questa forma letteraria». Nel giro di qualche anno si è ritrovata a studiare narrativa con Frederick Barthelme, alla University of Southern Mississippi, e in seguito si è iscritta al prestigioso Michener Center for Writers della University of Texas. Ciò nonostante ritiene che la sua trasformazione sia cominciata grazie a quella community online. «Se non mi fossi iscritta, è probabile che non sarei mai diventata scrittrice» racconta. «Non avevo alcun accesso a scrittori o a persone cui interessasse il mondo dell’arte in generale». Oggi, a trentanove anni – nel 2021, l’autrice americana ne compirà quarantaquattro –, Mary Miller è autrice di tre opere di narrativa, tra cui la splendida raccolta di racconti Happy Hour.
Sebbene ormai sia ben inserita nel contesto accademico (nel 2014 è stata writer in residence alla University of Mississippi e qualche anno fa è stata assunta come assistente visiting professor alla Mississippi University for Women), il suo lavoro è incentrato per lo più su soggetti che esistono al di fuori del mondo dell’istruzione superiore (e che spesso non hanno proprio studiato). I suoi personaggi leggono poco – come si puntualizza in un paio di racconti. Loro guardano la televisione (The Office, Girls, Bob’s Burgers e Intervention sono solo alcune delle serie menzionate), leggono riviste patinate (Cosmopolitan e Time, solo per citarne due), bevono margarita nei centri commerciali e si imbarcano in dozzinali crociere vinte al gioco. Le sue schiette descrizioni del sesso dal punto di vista femminile e l’attenzione per le donne bianche impantanate nei più svariati disturbi mentali le sono valsi il paragone con Mary Gaitskill, con la quale in effetti condivide l’umorismo caustico e la volontà di indagare a fondo i lati oscuri delle relazioni eterosessuali. Nelle sue opere sono inoltre disseminati chiari rimandi ai cosiddetti «realisti sporchi», scrittori che raccontavano le vicende dei bianchi delle classi medio-basse e che salirono alla ribalta a metà anni Ottanta. Oggi sono finiti nel dimenticatoio, ostracizzati dall’establishment.
In un’epoca in cui l’espressione “classe lavoratrice bianca” pervade in lungo e in largo la nostra cultura, le opere di Mary Miller hanno una rilevanza politica, oltre che letteraria. I suoi personaggi non sono hillbillies, “montanari”, o white trash, «feccia bianca» (per citare i termini utilizzati di recente da J.D. Vance e Nancy Eisenberg), ma bianchi di modeste risorse che vivono nelle cittadine di Stati considerati marginali. I suoi racconti sono troppo discreti e in sintonia con la psicologia dell’individuo per racchiudere una particolare agenda politica. Happy Hour, sotto molti punti di vista, è infatti un libro che parla di relazioni romantiche. Ciò nonostante le sue storie, intenzionalmente o meno, ci offrono un quadro approfondito di comunità che i residenti delle due coste spesso percepiscono come estranee.
Uno dei temi principali della raccolta è infatti la disparità di classe, e in particolare le sfide che deve affrontare chi cerca di superarla nel contesto di una relazione personale. In Istruzioni, ad esempio, la protagonista si sente distante dal suo ragazzo perché lui ha di più: più denaro, più beni personali, più esperienze di vita. «Se nasci povero puoi provare a nasconderlo quanto ti pare, ma la povertà non te la scrolli mai completamente di dosso» pensa. «Ci gode a leggere di gente che vince alla lotteria e poi si affanna a spendere fino all’ultimo centesimo per tornare allo stile di vita che conosceva». In Verso l’alto, invece, questa dinamica è invertita: la narratrice soffre del fatto di avere un ragazzo povero. «So esattamente quanti soldi ha perché quando torna a casa svuota sempre le tasche sul tavolo, banconote appallottolate da uno o cinque dollari, certe volte un paio di ventoni. E lo odio, cazzo, odio questo fatto che non ha niente e dà per scontato che tanto ce l’ho io».
I personaggi di Miller vivono più o meno tutti nello stesso mondo, e sono accomunati dalle marche che comprano, dai negozi dove fanno gli acquisti, dal loro modo di divertirsi e dal colore della pelle
La disparità di classe si fa sentire anche nelle amicizie più intime. In Prima classe la narratrice accompagna l’amica benestante in un viaggio a Miami da lei quasi interamente pagato. «Mi offre così tanto e così liberamente che quando non mi dà quello che voglio ci resto male» confessa. «Altra cosa che ho imparato sui ricchi: più ti danno, più dai per scontato che ti diano». In La bella gente, invece, la narratrice immagina di essere lei a svezzare il figlio dell’amica, che adora e sospetta abbia una dipendenza «da cereali zuccherati e pasta precotta […] lo porterei da Whole Foods e gli mostrerei la bella gente che lo frequenta».
Di norma, i personaggi di Mary Miller non fanno la spesa nei negozi Whole Foods, che vanno per la maggiore sulle due coste. Loro comprano da mangiare da Target e da Walmart, pranzano alla Waffle House e al China Buffet 2, vanno a bere in locali dai nomi improbabili come lo Shenanigans. Anche quando hanno un po’ di soldi per le mani, come accade in Prima classe o nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Happy hour, il fidanzato della narratrice acquista «camicie costose ma le indossa al rovescio o taglia via l’etichetta, così sembra che non gli freghi niente dei soldi». Sempre nel racconto Prima classe l’amica della narratrice, Shelly, dichiara di preferire Costco e Target a catene più eleganti, e passa le giornate «a vagare da un posto all’altro acquistando cose stupide di cui non ha bisogno». Anche se i personaggi di Mary Miller appartengono alla classe medio-bassa o sono poveri, vivono più o meno tutti nello stesso mondo, e sono accomunati dalle marche che comprano, dai negozi dove fanno gli acquisti, dal loro modo di divertirsi e dal colore della pelle.
Malgrado risiedano nel Mississippi, uno degli Stati più neri della nazione, le donne di Mary Miller sono quasi tutte bianche. Non si tratta di una svista autoriale, quanto più del riflesso di una determinata realtà: lei scrive dei bianchi, di comunità definite per lo più dall’identità bianca – inconsciamente o meno. Il fatto che non siano in grado di percepire i confini razziali del loro mondo non rende certo meno stringenti tali confini. Nel racconto Le mele dell’amore, ad esempio, la vicina della narratrice lamenta il fatto che «arrivano i messicani». «Ce ne saranno almeno una decina nella casa verde all’angolo», concorda educatamente la narratrice, prima di assicurare però al lettore che non le importa se «sono messicani, neri o a pois». Naturalmente, paragonare gente di colore a una categoria di individui al contempo non umana e inventata per dimostrare di non avere pregiudizi è perfettamente in linea con le dinamiche del suprematismo bianco, pertanto non sorprende che la narratrice cambi subito argomento.
In un altro racconto, intitolato La casa di Main Street, la narratrice dice alla compagna di stanza che i suoi fratelli da piccoli andavano a caccia di procioni e davano la carne ai neri. «Ha risposto che era da razzisti, ma è la pura verità, li regalavano a loro, e personalmente non ci vedo niente di razzista. Forse avrei fatto meglio a tenermelo per me» dice. Ha ragione: consegnare della carne di per sé non è da razzisti, ma nessuno dei due personaggi sembra tenere in considerazione le condizioni sociali che costringevano i neri ad accettare cibo di scarto dai bianchi. In Hamilton pool il ragazzo della narratrice è un ex galeotto con la schiena piena di tatuaggi da suprematista bianco (alterati e dissimulati). «Vorrei che non ti fossi fatto tutti questi tatuaggi razzisti» dice. «Anch’io» risponde lui. Nessuno dei due però dice la cosa più importante, ossia: Vorrei che tu non fossi stato (o vorrei non essere stato) un razzista.
Malgrado risiedano nel Mississippi, uno degli Stati più neri della nazione, le donne di Mary Miller sono quasi tutte bianche. Non si tratta di una svista autoriale, quanto più del riflesso di una determinata realtà
Il fatto che l’atteggiamento del suprematista bianco vada per la maggiore nei piccoli centri a prevalenza bianca non è una novità. Lo è piuttosto che in quei luoghi esistano bianchi desiderosi di perdere la loro posizione di supremazia. Nel racconto Orsetto, per esempio, una madre bianca emotivamente isolata osserva una famiglia di neri allestire una festa di compleanno al parco. «Ci sono palloncini, berretti, un uomo anziano affaccendato alla griglia, bandierine e marmocchi che corrono ovunque». Ciò le fa venire in mente i propri parenti, sparpagliati in tutto il Paese, e il fratello, la cui famiglia non ha mai conosciuto. Vede una bambina avvicinarsi «cautamente a una bambina col cane. Lei sorride e quelli accarezzano il cane e ora tutti quanti sorridono e accarezzano il cane. [Laura] vorrebbe unirsi a loro». In Un amore grande, grosso e cattivo la narratrice è una bianca che lavora in un rifugio per minori maltrattati e abbandonati. La sua preferita è Diamond, una ragazzina nera con gravi disturbi del comportamento. La donna è paziente con lei, amorevole: «La avvolgo in un asciugamano e la stringo come faceva mia madre con me, quando mi chiamava la sua piccola indiana e mi cullava fra le braccia prima di mettermi a letto». Diamond, a sua volta, le «accarezza il braccio come fanno a volte le bambine nere, immaginandosi come dev’essere avere la pelle bianca. Niente di che, dico sempre, prude e sanguina lo stesso». In questo come in altri racconti si percepisce la volontà del personaggio di sfuggire non solo alla propria situazione, ma alla condizione stessa di persona bianca. «La bianchezza è una scelta morale» scriveva James Baldwin, a significare che gli individui con la pelle chiara hanno la possibilità di scegliere se rendere o meno tangibile il «sistema di realtà» che dà vita al separatismo e alla supremazia bianca. Il fatto che i personaggi di Mary Miller non comprendano appieno una tale scelta renderebbe tragica la loro condizione, non fosse al contempo così distruttiva.
Le dinamiche sociali descritte dall’autrice, però, non sono limitate, né per posizione geografica né per classe, alla popolazione di cui scrive (per quanto i liberali delle due coste vorrebbero credere il contrario). Sono dinamiche tipiche dell’intera America, riscontrabili a Washington, dove abita il sottoscritto, così come a Seattle, in Texas o in Tennessee. Dopo le elezioni del 2016, i liberali di East e West Coast si sono precipitati a leggere libri come Elegia americana e White Trash nel tentativo di capire le motivazioni di chi aveva votato Trump. L’intero discorso però ruotava intorno alla classe sociale – si trattava di poveri della classe lavoratrice bianca, abbandonati dall’economia globale, che si erano rivoltati all’ordine neoliberale votando il candidato che prometteva loro salari e posti di lavoro migliori. Di certo c’è della verità in questo, tuttavia non si può prescindere dal fatto che stiamo parlando di bianchi. Se vogliamo davvero capire che cos’è diventata l’America, la questione della razza merita la stessa attenzione dedicata a quella sociale.
Nell’opera di Mary Miller non ci sono minatori degli Appalachi scontenti o camionisti dell’Oklahoma amareggiati, ma solo quegli stessi americani bianchi che popolano ogni angolo degli Stati Uniti: gente che fa la spesa da Target e che va da Starbucks, che guarda Iron Man e The Office. Gente che appartiene alla classe «operaia», a quella «media». Grazie ai racconti di Mary Miller prendiamo coscienza del fatto che le persone che hanno regalato la presidenza a Trump non sono poi così estranee. Cercando l’Altro, troviamo noi stessi.
Traduzione a cura di Sara Reggiani, traduttrice di Happy Hour (2017) di Mary Miller per Edizioni Black Coffee
Alex Gallo-Brown è poeta e saggista, ha scritto per Los Angeles Review of Books, Vice, Salon, The Rumpus, The Nervous Breakdown. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 23/02/2017 ► How Mary Miller’s Stories Demystify the White Working Class
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