La Turchia ai tempi di Afrin: un reportage

La guerra in Siria dal rombo dei caccia al controllo della stampa: un reportage dalla Turchia di Erdogan

Mi guardo attorno perplesso. Che lo abbia semplicemente immaginato? Non credo, eppure le ragazze nel mio ufficio continuano indaffarate il proprio lavoro come se niente fosse: rispondono alle chiamate dei clienti, preparano gli ordini per la divisione logistica. Ne effettuiamo tante di spedizioni qui: da un mese ormai lavoro per un’azienda turca e, vuoi per l’elevato livello tecnologico delle nostre produzioni, vuoi per il fatto che la valuta nazionale ha un cambio piuttosto favorevole per gli europei, il novanta per cento dei nostri dischi e delle nostre ruote è destinato all’esportazione. Cerco di ritrovare la concentrazione, fare quello per cui vengo pagato, ma pochi minuti dopo sento di nuovo quel rumore tanto assordante e invasivo che non posso fare a meno di precipitarmi alla finestra. Lo sto cercando con lo sguardo ma il caccia dell’aeronautica turca deve essere già passato sopra il tetto del palazzo. Un paio di giorni prima stavo passeggiando per il centro di Eskişehir, questa città della Turchia nordoccidentale che adesso è la mia casa, quando in rapida successione vedo e sento passare prima uno, poi un altro e infine un terzo aereo sopra la mia testa. Volano davvero bassi, appena sopra il livello dei palazzi e non mi ci vuole molto a capire che si stanno dirigendo in Siria. È passata circa una settimana dai fatti di Afrin e le immagini della devastazione sono ancora ben presenti nella mente e negli occhi di tutti. Ma a scioccarmi maggiormente sono il ragazzo e la ragazza al mio fianco: stanno ridendo. Attorno a me la vita dei presenti continua a scorrere via tranquilla senza che io possa fare a meno di domandarmi il motivo di tanta indifferenza, ma scoprirò presto che le cose stanno diversamente.
 

Prendo coraggio e faccio a Kerem la domanda che da qualche giorno mi si agita dentro: Cosa state combinando in Siria?


È sera, sto sorseggiando un tè, che qui in Turchia è qualcosa di più di una bevanda, è parte integrante della cultura: in ufficio una persona addetta alla preparazione ha il compito di non farcene mai mancare, al punto che puoi arrivare a berne fino a nove al giorno. Sarà per questo che sono ben lucido e sveglio quando prendo coraggio e faccio a Kerem la domanda che da qualche giorno mi si agita dentro: “Cosa state combinando in Siria?”, e Kerem non ha dubbi nel rispondermi. Mi considera uno di loro, non sono come tutti gli altri occidentali. Sono venuto nel suo paese senza alcun tipo di pregiudizio finendo con l’innamorarmi della vita qui, del suo cibo e delle sue persone, quindi sa che l’unico scopo della mia domanda è capire. “Vedi Lore, che dire sulla Siria. Il mio spirito umanitario, il mio cuore, mi urlano che dovremmo accoglierli tutti. Davvero, tu non sai quanto io lo vorrei, ma poi la mia testa”, dice che portandosi un indice alla tempia, “mi fa notare che non possiamo: ad ogni profugo il nostro governo riconosce circa mille lire turche, sai che vuol dire?”. Rifletto un attimo: il salario minimo di un operaio, stando alle mie informazioni, ammonta a millesettecento lire turche. “Significa che stiamo chiedendo a quelle persone di vivere con una cifra irrisoria, e che succede a quel punto? Lascia che te lo dica: non hai neppure idea di quanti casi di furti e di scippo si sono resi protagonisti quei profughi sul confine orientale. E questo ovviamente non ha fatto altro che aumentare la diffidenza nei loro confronti”. Mi prendo un attimo di tempo per metabolizzare, poi però la domanda sorge spontanea: cosa dovrebbero fare? “Rimanere lì a combattere per il loro paese, per tenerlo in piedi. Ecco cosa dovrebbero fare i siriani, perché noi turchi faremmo così!”.

Il controllo della stampa
Finisco il mio tè e mi spaparanzo sul divano. Sulla parete di fronte a me sta appeso un quadro che lui stesso ha dipinto. È il ritratto di Mustafa Kemal Ataturk. Non fatico a credere alla genuinità delle parole di Kerem: qui in Turchia l’orgoglio nazionale e l’amor di patria toccano vette che io, da italiano, non potevo neppure immaginare prima di arrivare ad Eskişehir. Crede davvero in quello che dice. “Mi stai dicendo che quel che dovrebbero fare è restare lì a combattere contro di voi?”, chiedo, e la sua risposta accende un campanello di allarme dentro di me. Non è poi tanto diversa da quella di Tuğçe, la collega con cui mi trovo meglio in ufficio. “Dimmelo tu che cosa dovremmo fare, lasciare che ci distruggano?”, mi chiede retoricamente, “siamo tutti dispiaciuti per i civili che si ritrovano presi in mezzo ma, ahimé, non c’è altra scelta che andare lì a stanare i terroristi. Ne va della nostra salvezza”. Perché questa è la versione ufficiale del governo di Ankara, le cui azioni militari altro non sarebbero che un modo per eliminare i separatisti curdi, rei di mirare alla creazione di un proprio stato indipendente e di essere disposti a far scorrere fiumi di sangue per ottenerlo. “Non è mai esistito il Kurdistan”, continua Tuğçe, “ci sono svariate etnie qui in Turchia: balcanici – chiamati “rumeliani” dai turchi –, azeri… pensi che tutti abbiano diritto ad un loro stato autonomo?”. Ma ormai rispondere alla domanda non mi interessa più, non è più questo il punto. Ciò che mi interessa davvero è il tema del controllo delle informazioni. Mi concentro sul dato di fatto, quello che viene dato per certo: tutto ciò che sappiamo senza ombra di dubbio è che Ankara sta effettivamente intervenendo militarmente all’interno del territorio siriano. Da lì in poi ci si perde in una grande nube di fumo. Da una parte il mondo occidentale guarda alla Turchia come ad un paese che sta approfittando dell’occasione per risolvere nel peggiore dei modi l’annoso problema dei curdi, dall’altro i turchi affermano con decisione di agire per meri scopi di sicurezza. In sintesi, da un lato la stampa occidentale parla di un’offensiva fortemente voluta per motivi politici dal presidente Erdogan, dall’altra si racconta di una Turchia costretta ad una guerra per scopi puramente difensivi.
 

Da un lato la stampa occidentale parla di un’offensiva fortemente voluta per motivi politici dal presidente Erdogan, dall’altra si racconta di una Turchia costretta ad una guerra per scopi puramente difensivi


Chi sta esercitando il controllo delle informazioni, Ankara o la comunità internazionale? I curdi sono vittime o terroristi separatisti? Rispondere con certezza sembra difficile. Tuttavia, ciò che c’è di certo è che la questione siriana gioca un ruolo ben più grande della difesa (o supposta tale) dei confini nazionali: grazie ad una massiccia propaganda contro il popolo curdo Erdogan è riuscito ad ergersi a estremo difensore della patria e a compattare così attorno a sé alleati ed oppositori, conferendo maggiore legittimazione ad un governo meno gradito di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Non ci vuole molto infatti per capire che non sono poi in tanti quelli totalmente convinti dell’AKP, il partito del presidente eletto nel 2014 con il 52% dei consensi, persino i suoi sostenitori ammettono che il problema della libertà di stampa in Turchia è reale e che criticare il partito del governo è sufficiente per meritarsi la galera. Ne è un esempio lampante l’esito del referendum costituzionale tenutosi nell’aprile del 2017. Ho un bicchiere di salep nella mano destra e le pedine della tavla davanti a me quando chiedo a Ender se c’è del vero in quanto ho sentito dire. “Sì, credo sia quello che è successo”, dice voltandosi verso la riva del fiume dove si sono radunati tanti giovani musicisti di strada, “in fondo tutti sappiamo che Erdogan ha modificato il nostro voto”, un voto che ha portato il paese al rafforzamento dei poteri del presidente. “Ha preso le nostre schede dalla scatola, una penna, ha fatto una X dove voleva per poi rimettere il foglio nella scatola stessa”, mi dicono invece degli amici conosciuti in un bar.

Il sostegno a Erdogan
Ma da cosa deriva allora il sostegno ad una forza riconosciuta quasi all’unanimità come antidemocratica? Come sempre la risposta sta nella combinazione di molteplici fattori. In primo luogo esiste effettivamente una parte dell’elettorato che guarda con simpatia al presidente, stretto osservante della religione musulmana, praticata dal 99% della popolazione del paese, anche se è lo sviluppo economico la vera base del consenso, uno sviluppo che sta riguardando prevalentemente le infrastrutture: se fino a ieri l’autobus restava il mezzo di trasporto preferito anche per le grandi distanze, negli ultimi anni grazie ai forti investimenti nella costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità si comincia a registrare un cambio di tendenza. Ad Istanbul, che già ne ospitava due, è in costruzione un terzo e nuovo aeroporto internazionale, un progetto che definire futuristico è dire poco. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica: basta guardarsi attorno per notare come questo aumento di ricchezza stia avvenendo nella più totale mancanza di rispetto dell’ambiente. Che la si attraversi in autobus o in treno, ti accorgi subito che la Turchia è un enorme cantiere dove è in corso la distruzione delle aree verdi. Persino trovare un giardino pubblico è un’impresa. Tuttavia, è probabile che sia stata proprio questa enorme mole di investimenti a permettere ad Erdogan l’innalzamento dei salari minimi (a fronte però di un innalzamento del costo della vita), operazione che ha ulteriormente aumentato la sua popolarità. In secondo luogo, accanto a manovre di natura economica si affiancano quelle di stampo sociale: la parte orientale della Turchia, la più povera e anche la più vicina al presidente, è anche quella dove i bisognosi hanno beneficiato maggiormente della distribuzione gratuita di pasta e carbone, un buon modo per riscaldare le case e superare l’inverno.
 

Tutti sono consapevoli dei brogli di Erdogan, ma allora da cosa deriva il sostegno ad una forza riconosciuta quasi all’unanimità come antidemocratica?


Infine, la popolarità (o supposta tale) del presidente è da ricercarsi in una terza causa, ovvero la reale mancanza di alternative politiche, e qui la mente torna al colpo di stato del 2016. Sebbene mi avessero detto che in Turchia è sempre meglio evitare di parlare di politica, devo constatare che tutti sono piuttosto disposti a soddisfare la mia curiosità. Sono appena arrivato ad Istanbul con un volo dall’Italia e ho solo poche ore a disposizione prima di prendere l’autobus che mi porterà verso ovest, nella mia nuova casa, e sono felice di trascorrerle con uno di quei cari amici che ho incontrato nel corso dei miei viaggi. Cedi, così si chiama, è davvero felice che io sia lì. Come ogni turco è ospitale e si arrabbia quando gli dico che ho prenotato un albergo anziché concedergli l’onore di trascorrere la notte a casa sua. Facciamo le solite chiacchiere. Come ti va il lavoro, che farai dopo l’università, la tua ragazza come sta, parole di circostanza fino a quando non gli chiedo di Fethullah Gülen, colui che il golpe l’ha progettato e che ormai da un po’ di anni se ne vive nella lontana Pennsylvania. “Amico, non credere a quello che ti raccontano. Non fidarti di Fethullah, lo sai chi è? Un predicatore che stava con Erdogan fino a quando non ha scoperto di non aver alcun tipo di possibilità contro il carisma del nostro presidente. Il colpo di stato? Fidati, non è un eroe, è solo una lotta per il potere la sua”. Per quanto strano, mi chiedo se Cedi sia un sostenitore di Erdogan. “Non scherziamo! Chi può votare uno che si sbarazza in quel modo dei dissidenti? Il vero problema è che non riesco a supportare alcun partito qui in Turchia… ed è per questo che me ne andrò una volta finita la mia tesi di laurea. Chissà, magari in Germania”.

Nessun partito o gruppo politico a cui rivolgersi allora? Be’, a ben guardare non è del tutto esatto. Non c’è bisogno di molte conversazioni per scoprire che qui in questo paese il Beşiktaş è uno dei club sportivi più popolari e che molti lo amano proprio per motivi politici, essendo la sua tifoseria dichiaratamente anarchica. Ma oltre che anarchici, i suoi tifosi sono anche sostenitori della causa ecologista e anti-razzisti (ai vertici dell’organizzazione si possono trovare addirittura degli armeni, caso più unico che raro in Turchia), e soprattutto nazionalisti impegnati in raccolte fondi per rifugiati palestinesi e (guarda un po’) siriani. La loro popolarità è tale che Erdogan si è trovato prima a doverne cercare il supporto e poi ad arrestarne e processarne ben trentacinque membri, in seguito alle proteste di Gezi Park nel 2013. In un paese in cui nonostante i risultati non straordinari il calcio viene venerato quasi come una religione, e in mancanza di certezze politiche, è nel Beşiktaş che molti scelgono di credere. Eppure, persino tra questi tifosi puoi trovare chi ti dice che Erdogan almeno una cosa giusta l’ha fatta: intervenire in Siria a difesa della patria. Quale delle due parti sta controllando le informazioni, la Turchia o la stampa occidentale? Le offensive turche in Siria mirano all'abbattimento delle resistenze curde o alla prevenzione di un eventuale attacco? Mentre siamo a porci questi interrogativi gli aerei qui continuano a volare senza che nessuno sappia davvero il perché. Come trovare risposte? E soprattutto, potranno queste risposte aiutarci a porre fine ai bombardamenti e al massacro dei civili siriani?

Lorenzo Furnari


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