La terza storia del porto di Bahia

Olanda-Spagna 5-1, Jorge Amado e la vanità del Generale Silva

Non è facile trovare un luogo di una città più fascinoso per generazioni e generazioni di narratori di vario ordine e grado quanto il suo porto. È lì, nelle locande per i marinai, i più grandi narratori non professionisti della storia dell’umanità, che sono andati in scena anno dopo anno, secolo dopo secolo, racconti più verosimili che veri, figli belli ma fragili, così esposti alla prima obiezione di un qualsiasi avventore, della vita vissuta e dell’immaginazione. Non fa eccezione il porto di Salvador de Bahia. Jorge Amado, uno dei più importanti scrittori brasiliani del secolo scorso, frequentò i barrios portuali di quella che fu capitale del Brasile prima di Rio de Janeiro e Brasilia, per poi ambientarvi i racconti lunghi Os Velhos Marinheiros e A morte e a morte de Quincas Berro Dágua, pubblicati in Italia con il titolo di Due storie del porto di Bahia.
A tre chilometri dal porto di Bahia si staglia lo stadio conosciuto come "Itaipava Arena Fonte Nova", costruzione da 55.000 posti sorta in vista dei Mondiali sulle ceneri di quello che fu l’Estadio Octàvio Mangabeira. Deve il suo nome a Octàvio Mangabeira, uomo straordinariamente poliedrico, che nel corso di una sola vita fu ingegnere, professore d’astronomia, Ministro degli Esteri, governatore dello Stato di Bahia, esule per ben due volte per volontà di Getulio Vargas, membro dell’Accademia brasiliana delle Lettere. Il numero di letterati ai quali è concessa l’onorificenza, che è a vita, è fisso, e quindi vi si può accedere tramite elezione solamente alla morte di uno dei membri. Nel 1960, alla morte di Octàvio Mangabeira, fu chiamato a sostituirlo lo scrittore che aveva da poco dato alle stampe Gabriela, Cravo e Canela, definito poi da Sartre come il miglior romanzo popolare che avesse mai letto, Jorge Amado.

Erano da poco passate le quattro e mezzo di pomeriggio ieri quando, nello stadio intitolato a Mangabeira, costruito a due passi dal porto reso famoso da Amado, David Silva da Arguineguìn, villaggio di pescatori della costa meridionale di un’isola dall’altra parte dell’Oceano, Gran Canaria, ha raccolto al limite dell’area avversaria l’ennesimo passaggio geniale della carriera di Andres Iniesta. Tra lui e la porta, tra lui e il gol del 2-0, tra lui e quella che con ogni probabilità sarebbe stata la fine della partita, solo il portiere olandese Cillessen. La Spagna fino a quel momento ha dominato il campo, vince 1-0 e sta addirittura togliendosi lo sfizio di zittire i detrattori storici mostrando un gioco meno monotono del consueto possesso palla difensivo, impreziosito ora da verticalizzazioni rapide favorite dall’instancabile lavoro di creazione degli spazi del “nuovo nueve” Diego Costa. Silva può tirare a incrociare sul secondo palo, scartare il portiere, tentare un colpo rasoterra, ma non lo fa. È due volte campione d’Europa e una volta campione del Mondo con la Spagna e fresco campione d’Inghilterra col Manchester City, e decide che non può segnare in maniera tanto semplice. David Silva da Arguineguìn tenta lo scavetto. Cillessen resta in piedi e devia in calcio d’angolo, l’azione successiva, sul ribaltamento di fronte, il terzino olandese Blind supera la metà campo, alza la testa e disegna una parabola verso il centro dell’area. In quel momento Van Persie decide di saper volare, si getta in avanti, colpisce la palla di testa sfidando ogni legge fisica esistente, e segna l’1-1. La terza storia del porto di Bahia racconta la caduta di un esercito invincibile iniziata con un gesto di vanità di uno dei suoi più validi generali.

La Spagna del secondo tempo sembra una squadra da metà classifica allenata da un allenatore troppo ambizioso e troppo stupido per capire che una squadra da metà classifica difficilmente otterrà buoni risultati scimmiottando il gioco della Spagna. I giocatori appaiono confusi, per la prima volta negli ultimi anni si ha l’impressione che la squadra che ha costruito tutto sul sapere cosa farsene del pallone tra i piedi, improvvisamente non sappia più cosa farsene di avere il pallone tra i piedi: al quarto minuto della ripresa Iniesta, visto il mancato inserimento dei compagni, è costretto a un tiro smorzato da fuori area che Cillessen blocca senza problemi, ed è proprio in quel preciso momento, nella parata quasi annoiata del portiere dell’Ajax, che finisce un modo di concepire il gioco del calcio che ha dominato questo scorcio di inizio secolo. Una manciata di minuti dopo Blind ci riprova crossando in avanti da sinistra verso il centro, dove stavolta c’è Arjen Robben, che deride con uno stop-e-sterzata Piquè e la mette dentro.
La formazione iberica da questo momento in poi ricalca alla lettera il copione già recitato nelle semifinali delle ultime due edizioni della Champions League da squadre di club con cui condivide la filosofia calcistica improntata alla ricerca ossessiva del possesso della palla, quella che in gergo giornalistico è fastidiosamente chiamata “tiki-taka”. Come il Barcellona 2012-2013 di Vilanova e il Bayern 2013-2014 di Guardiola sono crollati, rispettivamente per un risultato complessivo tra andata e ritorno di 0-7 e 0-5, dopo essersi ritrovati in una situazione di grande difficoltà, così la Spagna ieri sera è crollata dopo il ribaltamento del risultato firmato Robben. La dimostrazione più chiara di questo crollo non si ha in occasione di un gol, ma della traversa di Van Persie con il risultato ancora fermo sul 2-1 e quindi ipoteticamente recuperabile, arrivata dopo un’azione in cui di sei giocatori spagnoli intenti nella fase difensiva neanche uno si preoccupa di controllare Van Persie, sulla carta il giocatore più pericoloso degli avversari.

Non è però soltanto un crollo psicologico, ma anche tattico, a mettere un’ipotetica parola fine al grande ciclo spagnolo: Xavi, che nell’ultima partita in una manifestazione importante tra nazionali (la finale degli Europei 2012 vinta 4-0 contro l’Italia) aveva completato 41 passaggi nella trequarti offensiva, riesce a concluderne solo 15, Iniesta, che ha chiuso la sua stagione di Liga con una percentuale di passaggi completati del 90,7%, vede ridursi questa quota a un 86,7% (per dare un metro di paragone, quella di Afriye Acquah durante l’ultima stagione al Parma è stata del 87,1%), Piquè, dribblato nell’ultima stagione di Champions League, certamente non straordinaria per il suo Barcellona, una media di 0,4 volte a partita, è stato dribblato ieri tre volte, più di sette volte tanto.
Merita una menzione a parte Iker Casillas, capitano del Real Madrid campione d’Europa, che dopo una stagione in cui si è distinto nella massima competizione europea per club con una media di salvataggi su gol subiti pari a 4,22 è passato alla tragica prestazione di ieri sera, in cui questa statistica è scesa a 1,00: 5 parate e 5 gol subiti. È difficile restituire in un’ottica statistica però sia l’incredibile errore con cui propizia il quarto gol della serata dell’Olanda, il secondo di Van Persie, sia il modo in cui è messo a sedere da Robben in progressione prima della rete del 5-1.
Quattro anni prima, nella finale dei Mondiali 2010 a Johannesburg, in un’azione molto simile Robben, lanciato verso la porta e a un passo dalla rete che sarebbe potuta essere decisiva, si trovò davanti un Casillas che restò in piedi e riuscì a salvare il risultato sullo 0-0, risultato che fu poi trasformato da Iniesta al finire dei tempi supplementari in un 1-0 che regalò partita e dominio sul pianeta calcistico alla Spagna. Ieri sera lo stesso Robben, nella stessa azione, davanti allo stesso Casillas, come ogni buon personaggio letterario che si rispetti, dopo aver toccato il fondo, ha deciso di risalire e vendicarsi evitando di commettere gli stessi errori, e invece di tirare ha calpestato la dignità del dirimpettaio costringendolo a una goffa caduta e poi segnando. Sarà che il porto di Salvador de Bahia, come ci insegna Jorge Amado, è il luogo ideale per un grande racconto.


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