La svolta buona

È più populista la #svoltabuona o l’ostruzionismo?

Sembrano ormai lontani i tempi del rigore assoluto. I tempi in cui i conti dovevano essere precisi, e non era ammesso il minimo errore. Quei momenti in cui l’esiziale fil rouge era l’incertezza, tanto politica quanto finanziaria. Allora ci si emozionava, e scendeva anche qualche lacrima, nel parlare di sacrifici. Ma si sopportava, in nome di un alto ideale di sopravvivenza. Si accettava di fare economie, pur di allontanarsi dal baratro. Eppure quei tempi di magra non sono molto più di due anni fa.
Matteo Renzi ha atteso a lungo. Ha lasciato abilmente che fossero altri a farsi carico delle misure più impopolari ma evidentemente più urgenti. L’inasprimento della pressione fiscale. I tagli, seppur timidi. L’austerità necessaria a mettere in salvo nel breve termine il Paese. Ci sono voluti due governi, di tecnici e di responsabili. Due vittime sacrificali per gli equilibri della politica. Poi, quando si sono delineati i primi segni di ripresa economica, grazie anche alle misure draconiane dei due esecutivi precedenti, è entrato in scena. Al momento opportuno. Come un deus ex machina, inaspettatamente. Ha scosso i partiti assuefatti dalla lentezza di due governi schiavi del compromesso. Ha intessuto rapidamente alleanze di convenienza, ma piuttosto stabili. Si è garantito un discreto fondamento su cui poggiare la propria ambizione. Anziché inneggiare ad una indefinita responsabilità, ha promesso la concretezza. Ma soprattutto ha prospettato delle risposte alle istanze sempiterne di una classe media bistrattata, esausta e sfiduciata, guadagnandosene il consenso.

Il premier sa che dall’operato del governo in questi primi mesi dipenderà buona parte del suo futuro in politica. Dai successi o dalle sconfitte di questa legislatura gli elettori trarranno le proprie conclusioni già nelle imminenti elezioni europee. Per questo il presidente del Consiglio vuole «andare come un treno». Senza perdersi in sottigliezze, che rischiano di infiacchire l’esecutivo. Non c’è spazio per le solite concertazioni pretestuose, tantomeno per dibattiti estenuanti. L’azione di governo è un continuo perentorio aut aut. L’obbiettivo ambizioso è recuperare quell’insostenibile ritardo accumulato dalla politica negli ultimi vent’anni. In sostanza, costringerla a uscire dall’impasse esiziale in cui è precipitata. Renderla di nuovo produttiva. Adesso.
Il programma serrato del governo propone soluzioni pratiche ad un malessere diffuso. Presenta scenari di rinnovamento profondo, apparentemente di semplice realizzazione. La lungamente vaneggiata riduzione della pressione fiscale. La sempre utopica semplificazione delle regole del mercato del lavoro. La lotta mai vinta contro la burocrazia. Intenti nobili, misure improcrastinabili, che nessuno è mai riuscito a rendere solidamente realtà. Un decisionismo così netto spaventa molti. A cominciare dalla politica, passando per i dirigenti delle aziende pubbliche, fino ai dipendenti statali. Tra un cinguettio e una diapositiva, con una buona dose di coraggio e baldanza, Renzi scopre le sue carte. Propone con rinnovata enfasi temi in fondo assai datati, tuttavia impreziositi da una nuova affascinante patina. Con il suo manifesto savoir-faire erode consensi alle opposizioni, e si erge come unicum in un panorama politico altrimenti immutato, stagnante.

È per questo che qualcuno paventa già con toni catastrofici la minaccia del populismo. Con il timore di vedersi strappare qualche elettore, mette in guardia dalla presunta demagogia di un presidente del Consiglio giovane e spigliato, che rinuncia agli orpelli e preferisce l’essenziale, che rifugge la burocrazia ed esalta la trasparenza. Il timore di vedere migrare il proprio elettorato arriva fino al punto che l’accusa di demagogia arriva addirittura dall’autentico partito dell’ostruzionismo, degli strepiti e dell’ingenuità, il Movimento cinque stelle.
«Una presa in giro». Dal blog di Beppe Grillo, i pentastellati del Senato fanno sentire la loro voce tranchant sul tanto atteso decreto Irpef. «Un’elemosina una tantum che non cambia la vita a nessuno» quel bonus di ottanta euro in più per i lavoratori dipendenti. Come di consueto, non propongono nulla, ma si riservano il piacere di stroncare il provvedimento. Come se non bastasse, per screditare il governo e avere un po’ di respiro internazionale dal blog riesumano anche un articolo alquanto critico dell’Economist dell’inizio del mese scorso, quando il governo Renzi era in vita da poco più di dieci giorni. Questo dovrebbe bastare come prova super partes dell’inconcludenza. Forse i grillini non si sono accorti che l’Economist che accusa il premier di populismo è lo stesso giornale che poco tempo prima definì laconicamente Grillo un «genuino buffone».

Ma ciò che distingue Matteo Renzi dal Movimento cinque stelle non è solo la concretezza delle proposte. C’è una sostanziale e fondamentale differenza nella comunicazione. Da una parte, il premier fornisce speranza, alimenta il desiderio di cambiamento, di portare finalmente a termine la svolta buona. Si esprime in modo entusiasta, diretto. Dall’altra il Movimento, benché miri all’immediatezza, sceglie la polemica sferzante e gretta, l’attacco personale, l’insulto gratuito. Quel che è peggio è che non si risparmia nemmeno sortite assai di dubbio gusto, del tutto discutibili. Di certo, non dà l’impressione di avere alcun intento costruttivo.
Le nomine ai vertici delle aziende di Stato e il bonus in busta paga sono solo i primi passi del governo. Non possono che essere un abbrivio, una giusta rotta da continuare a seguire. A questi primi provvedimenti illuminati debbono necessariamente seguirne altri più coraggiosi e più radicali, che suggellino la discontinuità col recente passato che in molti auspicano. L’importante, poi, è non lasciarsi andare. Vedere i recenti spiragli di ripresa non deve indurre a tornare ad abitudini viziose. Altrimenti, ogni impegno mantenuto sino ad ora sarà vanificato. Certo, la maggioranza deve essere trattata con delicatezza e riguardo, per quanto sia più coesa di quella degli esecutivi precedenti. Ma il timore di turbare gli equilibri politici non può prevalere ancora sulla necessità di riforme che ancora il Paese attende.


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