La rivincita degli autori
Il riscatto degli sceneggiatori sui propri personaggi, da Star Wars di Lucas a Sherlock di Gatiss e Moffat
Il mondo in cui viviamo è un flusso di informazione continua, che permette di accedere a contenuti di ogni sorta dando la possibilità di creare storie in grado di rompere qualsiasi confine mediatico senza rischiare di far smarrire lo spettatore. Anzi, oggi la tendenza a produrre questo genere di narrazioni crossmediali è accompagnata da un sempre maggior successo, spinta da nuovi portali streaming che permettono una distribuzione più capillare e un rapporto più interattivo tra chi guarda e cosa viene guardato. Questo scenario rende l’idea della complessità dei prodotti cinematografici e delle varie possibilità di distribuzione, ma quando si prende in considerazione lo scheletro di queste storie, la situazione si fa più elementare. Il nucleo di queste mitologie narrative si può individuare nel personaggio, o meglio, nell’uso cardinale ed insostituibile del personaggio come perno di una possibilità narrativa. Parlare di personaggi come semplici protagonisti all’interno una storia, in questo caso, non è sufficiente, data spesso la loro importanza tanto rilevante da elevarli al di sopra del ruolo di semplici protagonisti, rendendoli delle icone, com’è successo in tempi recenti a Jack Sparrow nella saga dei Pirati dei Caraibi. Quando si ha a che fare con una figura crossmediale così ingombrante si crea un duplice effetto. Le case di produzione tendono a sviluppare un sentimento di affidamento ad un certo modello di personaggio iconico perché garantisce un successo e una riconoscibilità indipendente dalla lunghezza e dalla frammentazione della storia, ma allo stesso tempo la struttura fissa insita nella natura del personaggio iconico finisce col mortificare il ruolo autoriale, sovrastato da uno schematismo che non permette alcun tipo di elasticità creativa. Ragion per cui, negli ultimi anni, gli autori hanno cominciato a sperimentare diverse caratterizzazioni dei personaggi cercando di imporre le loro idee originali nel tentativo di ritrovare una dignità creativa che potesse distaccarsi dallo schema canonico del personaggio stesso.
Oggi le narrazioni crossmediali hanno un sempre maggior successo, spinte da nuovi portali streaming che permettono una distribuzione più capillare e un rapporto più interattivo tra chi guarda e cosa viene guardato
Sherlock Holmes, nato dalla penna di sir Arthur Conan Doyle nella metà del 1800, è diventato un’icona cinematografica indiscussa fin dal suo debutto sugli schermi, passando per la serie di film anni ’40 con Basil Rathbone, fino ai più recenti film di Guy Ritchie. Per quanto la maggioranza degli autori che si sono alternati abbiano provato differenti caratterizzazioni del personaggio del detective, raramente sono riusciti ad andare oltre la figura caricaturale, lontani per decenni dal crearne una nuova con una sua dignità artistica – c'è voluta la geniale rilettura contemporanea di Mark Gatiss e Steven Moffat, a reinventarne la figura in Sherlock, soltanto nel 2010. Ancora più rigida è la figura di James Bond, l’agente 007 di Ian Fleming, protagonista di una serie di romanzi iniziata nel 1953 (e che non vede ancora la sua fine) e, allo stesso tempo, icona cinematografica. Fin dal suo immediato debutto sullo schermo, la prima apparizione risale ad un episodio della serie antologica Climax appena un anno dopo la sua nascita vera e propria, Bond ha sempre mantenuto le caratteristiche di agente infallibile e, nonostante la saga abbia visto l’avvicendarsi di sei diversi attori per impersonarlo, soltanto con le ultime pellicole con Daniel Craig si è riusciti a superare certi aspetti ricorrenti rendendo il personaggio più realistico e sfaccettato, ma senza mai fare quel passo in più che avrebbe permesso una reale reinvenzione autoriale.
Ciò che accomuna Holmes e Bond è una narrazione che li mette in contrasto con gli altri personaggi, con cui si relazionano nella storia in una sorta di uno contro il mondo, ma questo modello rigido spesso non basta per sostenere l’intera struttura narrativa, specialmente con la frammentazione tipica della crossmedialità. Nel 1971 George Lucas fondava la Lucasfilm, la casa di produzione che sei anni dopo la sua nascita diede alla luce la prima pellicola della saga crossmediale più importante della storia del cinema: Star Wars. Il percorso cinematografico di Star Wars è noto ai più e se si pensava potesse concludersi con l’ultimo episodio della trilogia prequel diretta da Lucas nel 2005, in seguito all’acquisizione da parte della Disney questa convinzione è stata prontamente smentita dall’annuncio di una nuova trilogia e di altre pellicole ambientate nello stesso universo, ma ciò che rende Star Wars la saga crossmediale più prolifica di sempre è la sua produzione nella sfera videoludica, fumettistica e editoriale. Il fondamento di questa narrazione è lo Jedi, che non segue più la schematicità tipica dei personaggi sopracitati, ma presenta diversi archetipi, diversi modelli più elastici nei quali la sua figura prende forma. Tutti i comprimari che entrano in contatto con lo Jedi protagonista non sono altro che le personificazioni dei suoi modelli interni e gli permettono di svilupparsi all’interno della storia. Molto simile è la figura dello Hobbit, protagonista dei racconti della Terra di Mezzo narrati nei libri di Tolkien e portati sul grande schermo nelle due trilogie di Peter Jackson. Questi racconti descrivono un mondo fantastico raccontandone culture, tradizioni, storie e modo di vivere dei vari popoli che lo abitano attraverso i personaggi che il protagonista incontra durante il suo viaggio, ma ai fini della storia tutti questi servono semplicemente allo Hobbit a modellarsi, a trasformarsi nella piccola creatura capace di compiere le imprese più grandi.
Per quanto queste strutture interne permettano di poter rielaborare il percorso di formazione del personaggio e quindi di avere un maggior raggio di azione creativo, rimangono comunque degli schemi astratti che non permettono all’autore di appropriarsi del personaggio e di conseguenza lo costringono a porsi dei limiti nella stesura narrativa. Lucas nelle pellicole successive non riesce ad aggiungere caratteri ulteriori allo Jedi della prima trilogia, per quanto sia il creativo originale, e così anche Jackson nella prima trilogia si limita a seguire il tracciato di Tolkien e nella seconda, quando prova a spingersi oltre, finisce solo col ripetersi o con l’aggiungere materiale inutile ai fini dello sviluppo del personaggio.
Il fondamento della narrazione di Star Wars è lo Jedi, che non segue più la schematicità tipica degli altri personaggi, ma presenta diversi archetipi, diversi modelli più elastici nei quali la sua figura prende forma
I limiti del trattamento autoriale dei personaggi crossmediali in ambito cinematografico hanno trovato la loro soluzione nello schema narrativo della seria televisiva. Le serie tv fondano infatti la loro narrazione sullo sviluppo di un protagonista svincolato da ogni tipo di modello fisso; possiamo pensare a personaggi di serie di culto come Tony Soprano de I Soprano e Walter White di Breaking Bad. L’opportunità che la serie tv ha dato agli autori è quella di poter creare o ricreare da zero un personaggio con una libertà autoriale senza precedenti, in modo tale da poter dare una nuovo valore creativo al concetto stresso di personaggio. Questo è anche il segreto del successo del fenomeno Marvel, perché nella costellazione di innumerevoli film e serie televisive nate dai fumetti, tutte parte del medesimo universo narrativo, non ci si è limitati ad avvalersi di personaggi canonici, ma si sono reinventati al punto da ritagliare per loro uno spazio di uguale importanza rispetto all’universo della carta stampata. Quello che noi vediamo sullo schermo non è più il Capitan America di Simon e Kirby, ma è quello dei fratelli Anthony e Joe Russo, registi di The Winter Soldier e Civil War: È l’impronta autoriale la vera protagonista della storia che si narra.
Oggi ci sono moltissimi prodotti con strutture narrative che trascendono il modello di riferimento. L’esempio più calzante è Game of Thrones, trasformatosi in un prodotto televisivo autonomo: un po’ con la complicità dello scrittore George R. R. Martin, mai arrivato alla fine del ciclo di romanzi da cui la serie è tratta, un po’ per il successo che ha reso iconiche diverse figure della serie indipendentemente dai loro contraltari letterari, Game of Thrones si appresta ad arrivare alla conclusione sotto la guida unica dei suoi creatori D. B. Weiss e David Benioff. È curioso osservare come siano stati Gatiss e Moffat, pur avvalendosi con il loro Sherlock dell’icona crossmediale più datata, i veri fautori di questa rivendicazione autoriale all’insegna dell’originalità come missione creativa. Quello che hanno fatto è stato invertire la tendenza della scrittura crossmediale, non partendo più soltanto dalle storie originali per raccontare il personaggio, ma ricreando la sua psicologia dalle loro idee e dalla loro visione per poi rimodellare le storie, come si fa con degli eleganti abiti da sera con cui mandare in scena al meglio il proprio protagonista. I due sceneggiatori sono un esempio di autore 2.0, che non ragiona più secondo uno schema narrativo canonico, ma è un creativo che guarda oltre i confini segnati del singolo media di riferimento. E quando vede una storia si preoccupa non di narrarla, ma di reinventarla, di stupire, di andare oltre e di rompere gli schemi per elevarsi da semplice messaggero della storia di un altro ad autore ex novo, tanto protagonista del suo prodotto da superare in importanza perfino il personaggio crossmediale. Gatiss e Moffat sono le vere star della loro creazione come e più di Cumberbatch e Freeman, perfetti alleati e mediatori della loro genialità autoriale.
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