La resistenza della memoria

Su Resto qui di Marco Balzano, la storia dimenticata del Südtirol tra fascismo e difesa territoriale

Sulle rive del Lago di Resia, a Curon Venosta, un piccolo comune trentino stretto fra la Svizzera e l’Austria, si può ammirare uno spettacolo unico e quasi sovrannaturale: la punta di un vecchio campanile dritta sul pelo dell’acqua, irreale come un ologramma. Fiabesco soggetto fotografico per distratti vacanzieri, con tanto di cartello “Photo web point”, quel campanile è in realtà la testimonianza dolorosa di un pezzo di storia dimenticato ai margini della seconda guerra mondiale. Una storia di frontiera e di resistenza linguistica, di responsabilità territoriale e di lotta sociale, in una zona d’Italia lacerata fra due culture all’epicentro del conflitto. In Resto qui (Einaudi), con la forza idrovora della scrittura, Marco Balzano prosciuga l’acqua intorno al campanile risvegliando dal sonno lacustre la chiesa, i masi, i pascoli, la folla di microstorie dei borghi di Resia e Curon prima che venissero sommersi nel 1950 in seguito alla drammatica costruzione della diga che avrebbe unito i due laghi della valle alzando fatalmente il livello dell’acqua.

Siamo nell’Italia degli anni Trenta e a raccontare è la voce di Trina, una maestra di scuola elementare, che dopo la guerra si rivolge in forma epistolare alla figlia, scomparsa quando era bambina. Prima del regime, Curon è un borgo felice isolato dal mondo, incassato fra le valli altoatesine, dove si vive di pastorizia e si parla la lingua tedesca, nonostante il territorio sia formalmente italiano. Trina è ancora una ragazzina che sogna di diventare maestra, insieme alle amiche Barbara e Maja, mentre sbircia di nascosto il futuro marito Erich, più grande di lei, un giovane pastore che frequenta la casa del padre e dal quale avrà due figli: Marica e Michael. Con l’ascesa di Mussolini e la messa al bando del tedesco, il Südtirol viene violentato da un forzoso processo di italianizzazione, attraverso l’occupazione di uffici e scuole da parte di fascisti: parlare tedesco diventa una forma di resistenza, e insegnarlo, come fa clandestinamente Trina ad alcuni bambini in stalle e cantine, una ribellione punibile con le percosse e il confino. Il fascismo si infiltra nelle pieghe della vita quotidiana, diventa ordinario, logorando lentamente le energie e avvolgendo la valle in una nebbia che offusca la vista, mentre incombe il progetto, ciclicamente abbandonato e ripreso, di una diga che potrebbe sommergere l’intero paese.
 

Il fascismo sembrava esistere da sempre. Da sempre c’era stato il municipio col podestà e i suoi tirapiedi, da sempre c’era la faccia del duce appesa ai muri, da sempre c’erano i carabinieri che venivano a mettere il naso nei fatti nostri e ci obbligavano ad andare in piazza per ascoltare gli annunci. Ci eravamo abituati a non essere più noi stessi. La nostra rabbia cresceva, ma i giorni correvano veloci e il bisogno di sopravvivere la trasformava in qualcosa di debole e sfibrato. Simile alla malinconia diventava la nostra rabbia, non esplodeva mai. Sperare in Adolf Hitler era la ribellione più vera. Quella ribellione si faceva palpabile ai tavoli dell’osteria, nei ritrovi clandestini dove gli uomini si davano appuntamento per leggere i giornali tedeschi, ma svaporava quando soli nelle stalle mungevano le mucche e s’incamminavano verso la fontana a dissetarle.
 

Si guarda ormai alla Germania nazista come unica speranza, e quando nel 1939, con un accordo tra Mussolini e Hitler, si offre alla popolazione altoatesina la “Grande opzione” – fra il trasferimento nel Reich in cambio di terre e bestiami o la permanenza nel territorio italiano, con la rinuncia allo status di minoranza linguistica – la valle e il paese di Curon si spaccano a metà. Tra gli optanti e i restanti, tra quelli che, accettando l’offerta tedesca, possono finalmente abbracciare la propria cultura di appartenenza e quelli che, come Trina, Erich e padre Alfred, decidono invece di restare, legati con le viscere alla valle e ai pascoli, ai masi e alle montagne che li hanno cresciuti. «I pochi, come noi, che decisero di restare venivano insultati. Ci chiamavano spie, traditori. Di colpo gente che conosceva da quando ero bambina non mi salutava più o sputava per terra passandomi di fianco».

Quello che gli abitanti di Curon non potevano sapere era che, in Italia o in Germania, con Mussolini o con Hitler, sarebbero presto diventati carne da cannone, spediti a combattere una guerra in cui avrebbero perso tutto. La famiglia di Trina si disgrega. Marica sparisce nel nulla, lasciando ai genitori una pietra di dolore nerissimo e indelebile. Erich, come tutti gli altri uomini del paese, viene chiamato alle armi. Michael assume posizioni filonaziste. A Trina ed Erich, quando questi torna per un breve periodo dalla guerra, non resta che la diserzione e la fuga tra le montagne, cercando la complicità dei contadini e degli altri fuggiaschi. Allora la prospettiva si solleva, Curon diventa un puntino lontano osservato dall’alto. Si entra in una dimensione alterata del dolore, cristallizzata nel freddo della neve, dove per qualche istante niente più conta, né la miseria della guerra né i destini sciagurati dei figli né l’abbandono della propria casa. Solo il rinnovo di una promessa eterna d’amore, l’avventura di due sposi ribelli che si scelgono con orgoglio fino alla morte. «Ero una giovane sposa salita sulle montagne per amore del marito avventuriero. Ero una guerrigliera che i tedeschi temevano. Una maestra che aveva messo in salvo i suoi bambini».

Il dolore personale è sospeso per restituire un dolore comune, in una narrazione insieme distaccata e coinvolta, che non cede al sentimentalismo e non rinuncia all’intimità


La voce di Trina, donna istruita e consapevole, attraversata da una sofferenza sotterranea, lascia spesso il passo al racconto puro: il dolore personale è sospeso per restituire un dolore comune, in una narrazione insieme distaccata e coinvolta, che non cede al sentimentalismo e non rinuncia all’intimità, come per uno sforzo di lucidità memoriale che mima l’operazione narrativa di Balzano. Trina, d’altronde, sta scrivendo. È autrice lei stessa della lunga lettera che destina alla figlia scomparsa e l’intera storia è il suo tentativo, citando Ungaretti, di «sciogliere il canto del suo abbandono», di sopravvivere al ricordo attraverso la terapia della scrittura. Lo stile asciutto e rarefatto accordato a Trina produce un senso di ineluttabilità tragica e un’atmosfera di dolente incognita: sulle sorti del conflitto, sulla misteriosa scomparsa della figlia, che continua forse a vivere lontano, sulla costruzione della diga che renderebbe ogni sforzo vano, destinando all’oblio tutto il capitale di sentimenti e dolori investito nella difesa della propria terra.

Il primo progetto del 1920, voluto dal governo italiano per sfruttare le capacità idroelettriche dell’Alto Adige, miniera di “oro bianco”, prevedeva l’innalzamento del livello del lago di soli cinque metri, senza rischi per gli abitanti della valle. Ma nel corso dei trent’anni di realizzazione, e in particolare nell’immediato dopoguerra, il progetto si amplia fino a prevedere ventidue metri, livello fatale per Curon, terminando con la definitiva apertura della diga nel 1950 a opera della Montecatini s.p.a. Anche a guerra finita, quando ancora bisogna raccogliere i cocci, non cessano la brutalità e la violenza, non più inflitte da divise nazifasciste ma dall’inclemenza del cemento, che asfalta vite e storie in nome di un inappellabile progresso. Con il sostegno dell’indifferenza della gente, «assetata solo di tranquillità. Contenta di non vedere», e raggirata da avvisi fatti circolare in italiano, una lingua che non comprende. Erich, consapevole della situazione, continua a lottare perdendo il sonno, studiando le carte e facendo reclami formali. Fino all’evidenza e alla detonazione, la guerriglia civile, gli scontri con i carabinieri, che sembrano il resoconto di azioni No Tav, in un altro tempo e in un altro luogo.
 

Padre Alfred organizzò preghiere collettive, processioni, veglie. Qualche contadino, insieme a gente arrivata dal Nord Italia, si presentò al cantiere e cercò di tagliare le reti. Arrivarono immediatamente i carabinieri a farli sgomberare. Qualche giorno più tardi, alle prime luci dell’alba, gli stessi contadini riuscirono a scavalcare il posto di blocco. Erano in quattro: si buttarono oltre la recinzione e corsero a rotta di collo verso i manovali al lavoro nel fossato. I carabinieri spararono in aria, ma lo stesso quei quattro correvano e si lanciavano addosso ai manovali come chi è disposto a morire. L’uomo col cappello ordinò di non sparare. Ci fu rissa, polvere a nugoli, calci e pugni. I manovali erano tanti e in un attimo gli balzarono addosso. Li disarmarono, gli misero i piedi in faccia e i contadini restarono immobilizzati sotto gli scarponi. Rossi di terra e vergogna.
 

Ultimo baluardo, la parola. Quella lingua che era stata brutale mezzo di conflitto e divisione durante la guerra, trasformando la valle in «un punto incerto d’Europa dove tutti si guardano di traverso», può diventare strumento comune di lotta e di resistenza estrema, unica via per unire tutte le voci e arginare la violenza. Oppure terapia per trasformare il dolore, tramandare una storia, salvare le macerie prima che vengano inghiottite dal tempo. La scrittura di Balzano, scandita come una nevicata, lenta e decisa come i passi di Trina ed Erich sulla montagna, fa sentire i piedi fradici e la pancia vuota, all’osso più intimo della sopravvivenza. Scandaglia il fondo del lago come un sommozzatore e restituisce dignità alle voci soppresse, alle case ormai piene di alghe e pesci, costringendo i futuri turisti di Curon a fermarsi un po’ di più, prima di tirare fuori lo smartphone, di fronte alla storia di quel campanile che adesso può parlare.


Pubblicato nello Speciale Premio Strega 2018


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