La ragazza senza nome di Jean-Pierre e Luc Dardenne
con Adèle Haenel, Jérémie Renier, Thomas Doret, Fabrizio Rongione, Olivier Gourmet
Jenny (A. Haenel) lavora come medico condotto in un ambulatorio nel quartiere povero di Seraing a Liegi, affiancata dal tirocinante Julien (O. Bonnaud). Il suo incarico è giunto quasi al termine perché la giovane e brillante dottoressa si appresta a ricoprire un ruolo di prestigio in un importante ospedale. Una sera qualcuno suona il campanello ma Jenny decide di non aprire, rimproverando Julien che invece vorrebbe accogliere la persona fuori nonostante sia già passata un’ora dalla chiusura dell’ambulatorio. La ragazza è molto severa con lui, ancora acerbo e troppo sensibile, e cerca in tutti modi di insegnargli ad avere il rigoroso distacco che la professione di medico esige. Il giorno dopo la polizia chiede di poter visionare le registrazioni della telecamera di sorveglianza dello studio perché nelle vicinanze è stata trovata morta una ragazza africana sprovvista di documenti, e Jenny scopre che è proprio la persona a cui non ha voluto aprire la sera prima. Si manifesta così in lei un senso di colpa che la condurrà a cercare ostinatamente il nome della ragazza per restituirle un’identità, convinta che sia il giusto, seppur minimo, risarcimento.
Nel loro nuovo film La ragazza senza nome (La Fille inconnue, il titolo originale), in concorso al 69º Festival di Cannes, i fratelli Dardenne si addentrano con il loro tocco inconfondibile nelle fitte trame della detection, raccontando la storia di un medico la cui missione, il cui fine è quello di proteggere la vita e di allontanare la morte e le sofferenze altrui, viene improvvisamente destabilizzata da un terribile errore. In un paradossale ribaltamento rispetto a ciò che la medicina gli chiede, quello stesso medico si ritrova così a essere responsabile della morte di qualcuno. Il conflitto generato alberga in Jenny scindendo ulteriormente la professata deontologia del distacco sul piano professionale e l’inconciliabile sfera esistenziale ed emotiva su quello prettamente umano, che non le permette di distaccarsi da quel corpo che la implora chiedendole indietro l’identità perduta. L’ossessione per la ragazza sconosciuta finisce dunque col possederla completamente e la sua vita scompare per tutto il film, “sostituita” da questa sorta di missione risarcitoria volta a restituire un nome alla ragazza e l’agognata serenità alla sua coscienza.
Vive in Jenny l’idea che la “ragazza sconosciuta” «non è morta se continua ad agire nel nostro pensiero». E allora indaga, cerca informazioni fino a risultare scomoda e invadente, condivide il proprio senso di colpa con l’intransigenza che la contraddistingue, pretendendo anche dagli altri un’ammissione di responsabilità che li faccia uscire dal silenzio. In tal senso, per stessa ammissione dei due registi, il “liberare la parola” diventa il tema principale del film e il piano linguistico e la messa in scena si affidano quasi del tutto, ancor di più che nelle loro opere precedenti, al corpo e ai gesti.
Vive in Jenny l’idea che la “ragazza sconosciuta” «non è morta se continua ad agire nel nostro pensiero»
Nell’ormai consacrata “dimensione-Dardenne” e sulla scia dei precedenti acclamati Rosetta, L’Enfant, Le silence de Lorna e Deux jours, une nuit, anch’essi imperniati su un personaggio femminile, il volto pulito e algido di Adèle Haenel s’inserisce magnificamente restituendo alla protagonista tormento, severità e rigore, quello stesso rigore (formale) che caratterizza lo stile disadorno dei frères. La sfera d’interpreti secondari, in cui orbitano i fedeli feticci Rongione, Gourmet e Renier, accompagna con discrezione il percorso della giovane donna conferendo autenticità e misura alla coralità del quotidiano assai cara ai due cineasti belgi.
Nonostante l’indiscutibile spessore narrativo e autoriale e le notevoli intuizioni di scrittura, però, l’impronta rimane fredda e l’asciuttezza registica estrema, seppur coerente con i contenuti del film, a tratti finisce col soffocare la fruizione dello spettatore privandolo questa volta, a differenza dei precedenti lavori citati, di un coinvolgimento emotivo appagante. Il rischio è perciò quello di rimanere avvinghiati, a scapito del semplice intrattenimento, nelle trame della sola riflessione morale in cui la ricerca della parola si declina appunto come perseguimento del riconoscimento pubblico della colpa. Quella stessa colpa riconosciuta da Jenny, che ne porta il peso dignitosamente, in un racconto ancora una volta incentrato sul nobile assunto dardenniano per cui filmare una donna significa misurare il polso della società.
«Se le avessi aperto la porta sarebbe viva come me».
«Ha ragione, ma non è stata lei ad ucciderla».
BEL 2016 – Dramm. 113’ ★★★
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