La ragazza che sopravvive

L’eroina di Jodie Foster ne Il silenzio degli innocenti e il problema delle “final girl” nel cinema horror

La prima volta che ho guardato Il silenzio degli innocenti in tv ero nel soggiorno buio a casa dei miei genitori. Un’amica dell’epoca mi aveva, chissà come, convinta a noleggiarlo, avevamo spinto il divano vicino allo schermo e ci eravamo rannicchiate con le ginocchia strette al petto e le mani pronte a coprire gli occhi. Non so come fossimo riuscite a eludere la sorveglianza di mia madre. Era l’inverno del primo anno di liceo. La porta scorrevole a vetri accanto a noi rifletteva, nella sua nerezza, un ritratto fugace delle nostre facce.
Ricordo la sequenza di apertura: un bosco deserto, una donna sola che si arrampica su un’altura, corre fra gli alberi, sempre più veloce. La musica triste e inquietante, che in qualche modo evoca insieme una minaccia in agguato, la violenza di una scena d’inseguimento e l’alba di un nuovo giorno. Pensavo che la giovane donna stesse scappando, che qualcuno la stesse inseguendo e che presto avrei dovuto assistere alla sua morte.
 

Di Starling ammiravo i nervi d’acciaio e il suo modo d’essere così poco femminile. Ammiravo anche il suo modo di dimostrare il proprio valore in un mondo di uomini dove le donne sono sacrificabili, corpi mutilati


Ricordo di aver portato le mani vicino agli occhi così da poterli coprire appena ne avessi avuto bisogno. Ma, alla fine, la giovane donna non viene uccisa. È lei a sopravvivere. È lei che capisce come catturare lo psicopatico che dà la caccia a ragazze in carne, prosperose e all’apparenza sprovvedute. «Lei più o meno porta la 44?», chiede il killer a una delle sue vittime subito prima di colpirla e farla svenire.
«Meno male che non sono grassa», ricordo di aver detto ad alta voce. Sentire le costole sotto la maglietta mi rassicurava. Ecco più o meno quello che ricordo: io, a quattordici anni, che a stento ero riuscita a sopravvivere al mio primo campionato di corsa campestre, il corpo consumato al punto da sembrare quello di un ragazzino di dodici anni. Il buio e il freddo. Il modo in cui tenevo le ginocchia al petto, il corpo praticamente ripiegato su sé stesso mentre guardavo il film, come se quella posizione mi tenesse al sicuro.

Stranamente, non ricordo quasi niente della seconda volta che vidi questo slasher ricercato su una aspirante agente dell’FBI, che rimane psicologicamente invischiata con un serial killer nel tentativo di catturarne un altro. Forse era l’estate del mio primo anno al college, o forse era autunno. Il dove e il quando sono degli strani vuoti sulla superficie della mia memoria, come se quelle coordinate fossero irrilevanti. Ciò che ricordo di quella seconda visione è l’effetto che ebbe su di me. Il modo in cui quella figura solitaria sullo schermo, gli occhi fissi in avanti, la mascella rigida come se stesse sostenendo un qualche test, la voce sempre attentamente bassa, mi parlò fin da subito. Starling (così viene chiamata a Quantico) era tutto ciò che avevo sempre provato a essere. Ammiravo il suo modo accanito di allenarsi, la sua disciplina. Ammiravo i suoi nervi d’acciaio e il suo modo d’essere così poco femminile: mai una risata, mai un’ostentazione del corpo, mai una parola su capelli, trucco o peso. Ammiravo anche il suo modo di dimostrare il proprio valore, più e più volte, in un mondo di uomini dove le donne sono sacrificabili, corpi mutilati. Allora non lo sapevo, ma Starling è una “final girl”.
 

La final girl è quel personaggio femminile solitario che in uno slasher riesce a sopravvivere al sistematico massacro delle ragazze più svampite e sensuali


La final girl è quel personaggio femminile solitario che in uno slasher riesce a sopravvivere al sistematico massacro delle ragazze più svampite e sensuali. E la caratteristica principale della final girl – la ragione per cui è l’unica a sopravvivere – è il suo essere diversa dalle altre. «La final girl è, in una parola, mascolina», così la definisce Carol Clover in Her Body, Himself, il suo fondamentale articolo di film studies del 1987, che lessi per la prima volta intorno ai vent’anni. La final girl «non è del tutto femminile».
È una definizione senz’altro ambigua, ma che sembra vera alla luce degli standard di femminilità degli slasher vecchia scuola, dove le ragazze sono un misto di sensualità, civetteria e sfacciataggine. Ridacchiano, sparlano di ragazzi, litigano per delle stupidaggini e, in breve, non sono abbastanza sveglie per superare in astuzia il killer psicopatico. Ma la final girl è diversa. Come osserva Clover, con una precisione da tassonomia aristotelica, la «serietà, l’intelligenza, la competenza in materia di meccanica e di altre occupazioni pratiche e la frigidità sessuale distinguono la final girl dalle altre ragazze».

Le sue caratteristiche peculiari fanno anche sì che le altre ragazze, con la loro femminilità caricaturale e degradante, siano etichettate come vittime designate, che meritano il loro destino. Cosa troviamo nella scena iniziale di Hell Night (per esempio) se non un gruppo di studentesse del college urlanti che bevono indossando le loro magliette bagnate? La final girl, significativamente, non è fra loro. La final girl di L’assassino ti siede accanto primo sequel della saga horror di Venerdì 13 – non socializza mai con le altre donne dello staff al campo estivo; gioca a scacchi e passa il tempo coi ragazzi. E poi – se estendiamo il genere ai film patinati di Hollywood – c’è Clarice Starling.
Nonostante o forse grazie alla valanga di slasher negli anni ’70 e ’80, è Starling, in un prestigioso film del 1991, che sembra incarnare al meglio la definizione di final girl. È come se i classici tratti di questa figura si fossero cristallizzati in lei. Non a caso, quando poco più che ventenne setacciavo tutti i siti possibili alla ricerca di risposte a domande che non sapevo ancora come formulare e mi imbattei per la prima volta nell’anatomia della final girl di Clover, mi sembrò evidente che fosse una descrizione di Starling.
 

Laurie di Halloween non bada ai pettegolezzi, Nancy di Nightmare si dedica alla caccia dell’assassino e non a soddisfare i desideri sessuali del suo ragazzo, così Stretch di Non aprite quella porta - Parte 2 


Negli slasher degli anni ’70 e ’80 (l’apice del genere) si possono sicuramente ritrovare le caratteristiche generali che diedero forma alla definizione di Clover: la puritana Laurie Strode, di Halloween - La notte delle streghe, si preoccupa perché ha dimenticato il manuale di chimica e non bada ai pettegolezzi sui fidanzati delle sue cosiddette amiche. Nancy, di Nightmare - Dal profondo della notte, si dedica a costruire una trappola mortale per Freddy Krueger e non a soddisfare i desideri sessuali del suo ragazzo. Stretch, di Non aprite quella porta - Parte 2, è concentrata sulla ricerca dell’assassino e non sulle relazioni con gli altri.
Ma più slasher del genere si guardano, più ci si accorge che queste final girl non sembrano “del tutto femminili” solo se confrontate con le altre ragazze molto stereotipate di quei film. Stretch, per esempio, nonostante collezioni molti punti final girl sulla scala Clover, indossa degli shorts cortissimi per tutta la durata del film. E Ginny, la final girl di L’assassino ti siede accanto, non solo irrompe nel campeggio con una lunga gonna rosa ma si esibisce anche in un’intensa pomiciata col suo ragazzo.
Marti, l’unica a sopravvivere in Hell Night, sa riparare un’automobile ma per tutto il film indossa un costume di Halloween in stile rinascimentale, che lascia esposta una scollatura vertiginosa. Quello che voglio dire è che la sopravvivenza di queste donne, o “ragazze”, non è dovuta a un totale oscuramento delle loro caratteristiche femminili più convenzionali. Lo stesso, tuttavia, non si può dire per Starling.

Ogni volta che riguardavo Il silenzio degli innocenti a intervalli regolari, avvicinandomi al film con la riverenza di un sacerdote verso un testo sacro, quello che mi colpiva di Clarice era il suo essere quasi sempre l’unica donna in scena. In un ascensore pieno di uomini che indossano polo identiche e pantaloni color cachi; negli uffici a Quantico, con le pareti in cemento tappezzate con foto di scene del crimine; nel manicomio criminale, con il suo corridoio pieno di pazienti che la squadrano mentre passa. Starling, senza dubbio, sta cercando di farsi valere in un mondo di uomini.
In questo senso il suo obiettivo è più intenzionale rispetto a quello delle altre final girl, che non si mettono mai alla prova nel campo tradizionalmente maschile della caccia al mostro, ma semplicemente si ritrovano a dover combattere l’assassino psicopatico e si fanno trovare pronte. Starling, al contrario, vuole fare fin dall’inizio un lavoro che in base a quanto possiamo vedere del personale a Quantico è svolto soprattutto da uomini. Clarice si allena in un campo prettamente maschile, impara a sparare, a combattere e a governare le sue paure.
 

Nel mondo delle forze dell’ordine essere femmina ha un unico significato: debolezza. Ed era una debolezza in cui mi riconoscevo


La sua mascella è sempre rigida, un’espressione che spesso assumevo anche io, per sintonia ed emulazione, mentre guardavo il film. Nel mondo delle forze dell’ordine in cui sta provando a farsi strada, essere femmina ha un unico significato: debolezza. Ed era una debolezza in cui mi riconoscevo. Quei poliziotti di provincia la mangiano con gli occhi non appena rimangono soli con lei. Il suo far parte del gentil sesso è una scusa per spostare la discussione riservata riguardo una scena del crimine all’interno di una stanza privata, lontano da lei. Deve sempre ignorare i commenti lascivi e le avance che le vengono mosse solo perché ha un corpo di donna.
«Una ragazza attraente per farlo eccitare», afferma malizioso il dottor Chilton mentre conduce Starling alla cella di Hannibal “the Cannibal” Lecter. «Sento l’odore della tua fica» è quello che uno dei pazienti del manicomio sibila rivolto alla donna. Persino Lecter, una persona raffinatissima, le chiede se pensa che il suo capo sia sessualmente attratto da lei. E, fatta eccezione per Starling, i personaggi femminili che compaiono più spesso sono i corpi nudi e mutilati delle vittime.
Sono in tutte le foto delle scene del crimine nell’ufficio del coroner, nei continui scambi di circostanza fra Starling e i suoi superiori uomini. («Dunque tre giorni, poi le uccide, le scuoia e se ne libera»). Riesco a sentire il mio corpo di quattordicenne restringersi mentre guardo il film, le ginocchia strette al petto, il mento in dentro, come se facendomi piccola avessi potuto, se non respingere, almeno evitare un pericolo del genere.


 

 

Alyssa Pelish è scrittrice, saggista e giornalista culturale. Suoi scritti sono apparsi su Harper’s Magazine, The Paris Review, Slate, Los Angeles Review of Books, Literary Hub e Granta. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 20/11/2020 ► On the Women Lucky Enough to Survive Horror Films ed è un estratto del saggio ► The Problem with Being a Final Girl | Traduzione di Francesco Cristaudo


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