La quiete (apparente) dopo la tempesta

Un nuovo attore nel gioco delle parti. Per strappare il Pd al baratro

Epifani. Dal greco epiphàneia (n. pl.), apparizioni. È proprio un’apparizione, quella di Guglielmo Epifani alla guida del Partito democratico. Improvvisamente, nel concitato precipitare degli eventi, un punto fermo da cui ripartire. Ultima disperata speranza prima di toccare il fondo. La soluzione, per più dell’ottantacinque percento dei delegati all’assemblea del Pd, è lui. Un sessantatreenne distinto, con un passato lontano da socialista vicino a Craxi, e un recente passato da segretario generale della CGIL. Candidato unico per la guida pro tempore del Pd. Una scelta obbligata, per scongiurare la morte certa. Ecco l’illusione di una nuova epoca.

È forse una tregua a scadenza, quella del Partito democratico, più che una pace solida e duratura. Un necessario cessate il fuoco interno, per rendersi conto di quanto è sopravvissuto dopo le infamanti sconfitte alle politiche e al Quirinale. Gli animi paiono placarsi d’un tratto, dopo i dissidi interni. I delegati arrivano alla spicciolata in assemblea per svolgere il loro dovere. L’imperativo comune e condiviso è votare Epifani. Per salvarsi dalla rovina, altrimenti ineluttabile. E restituire una decorosa immagine di coesione che mal si accorda con la realtà, nonostante i sorrisi e le battute di conforto. Mentre l’assemblea alla Fiera di Roma diventa quasi un momento di catarsi collettiva, in cui dimenticare il burrascoso passato. Guardando con fiducia ad un imminente domani, a che comincia dalle amministrative. Nel pacato entusiasmo collettivo, quasi nessuno pare accorgersi delle querimonie di un Bersani, tra l’amareggiato e il costernato. “Si sa com’è in politica: si vince tutti insieme e si perde da soli”. Intanto, è lui a divenire il capro espiatorio perfetto, al quale addossare ogni responsabilità della débâcle. Dal palco l’ormai ex-segretario pronuncia un discorso breve, due minuti, tre, e poi si congeda tra gli applausi, che suonano compassionevoli. Finalmente può avere inizio la rivincita dei perdenti. L’autoassoluzione è compiuta.

Epifani assume su di sé l’incarico di guidare il partito fino al congresso di Ottobre. Come fosse uno stato di emergenza, si evitano le primarie, che potrebbero addurre ulteriori divisioni al già frammentato scenario interno. Lo spirito di partecipazione di cui ci si è fatti a lungo fregio può essere temporaneamente dimenticato. L’ex-leader della CGIL è il giusto mezzo per rattoppare gli squarci, e non si discute. L’unica risposta adeguata in questo momento per un partito che ha sempre vissuto di compromessi e fallimentari conciliatorismi. Adesso è necessario agire con sollecitudine, per dirimere le questioni più prioritarie. Come quella dello statuto, che soprattutto i renziani spingono per cambiare, separando la carica di segretario da quella di candidato premier. Perché il pragmatico rottamatore non ha alcun interesse nel diventare segretario. Non a caso si mostra possibilista sull’appoggio a Epifani, e, quasi con disinteresse, mettendo da parte i rancori, si dice disponibile a “dare una mano”. Quello a cui aspira è ben altro.
Restano sullo sfondo le primarie. Nessuno, per adesso, sa dire – né vuole dire – quando si terranno. Tantomeno si pronuncia con sicurezza su chi saranno i candidati, ancora malcelati dietro ad un’ostentata indifferenza. I nomi sono molti, dal lapalissiano Renzi al novizio Barca, transitando per Letta – se i risultati del governo lo permetteranno – , fino allo stesso Epifani. Tutti si mostrano evasivi, dinanzi alle domande insistenti della stampa. L’intento disperato è quello di preservare un apparente stato di unità. Procrastinando, rimandare le contrapposizioni, e consolidare le fondamenta della struttura.

Ma la base, quella vera, quella degli elettori, è insofferente. La ferita delle recenti sconfitte è ancora aperta, e stenta a rimarginarsi. I fedelissimi si sentono traditi, oltre che delusi. Il dissenso crescente verso le decisioni della nomenklatura si spande rapidamente in tutto il Paese. Soprattutto tra i giovani, che siano turchi o sfasciacarrozze, o nostalgici della democrazia cristiana, oppure edulcorati comunisti. E non vedono altra soluzione che occupare le sedi del loro stesso partito, per dare voce allo strazio che li affligge. Occupy Pd, si chiamano, conformandosi alla moda della rivoluzione che arriva da oltreoceano. Vogliono dare voce alle loro istanze di rinnovamento, dinanzi ad un Epifani che “puzza di apparato”, che non li convince fino in fondo. Per questo si presentano dinanzi all’ingresso dell’assemblea. Indosso, delle magliette bianche. “Siamo più di centouno”, recitano. Il riferimento non è tanto ai dalmata, quanto ai franchi tiratori, che hanno pregiudicato l’elezione di Prodi al Quirinale. Posano per la stampa e gridano la loro rabbia. Mettendo in imbarazzo il partito, che non riesce a richiamarli all’ordine.
Dopo un’assemblea di sottili e contenute fibrillazioni, nel Pd ci si convince che sia necessario ritrovare l’unità, l’ordine e la disciplina. La vittoria di Epifani è netta, almeno in apparenza. Se non si considerano i silenzi e le dichiarazioni caute degli elettori, anche dei più in vista, come D’Alema e Civati. Se non si considerano nemmeno le schede bianche e quelle nulle, più di un centinaio. Ma soprattutto se non si considera che i quattrocentocinquantotto voti che lo hanno eletto non sono che la metà del numero dei delegati ufficiali.

Alla fine, comunque, il partito è pressoché già condotto in salvo. L’ostacolo più pericoloso – quello della convergenza su un nuovo segretario, un nome che mettesse tutti d’accordo – sembra ormai superato. Eppure, gli interrogativi continuano ad incombere sul futuro del Pd. Il continuo rincorrere le proprie velleità rischia di sconvolgere nuovamente da un momento all’altro i fragili equilibri, che hanno viziato i sogni trionfalistici del centrosinistra. Perché il difetto principale è quella spiccata e innata propensione al particolarismo. Di cui fornisce un esempio inequivocabile lo stesso Epifani: “non potevo e non volevo sottrarmi al compito”, afferma. Nessuno, infatti, nel Partito democratico, vuole perdere l’occasione di primeggiare.  


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