La pulce e l'elefante
L'amicizia futurista tra l'incendiario Marinetti e il mite Palazzeschi
Nonostante la compattezza ideologica che Filippo Tommaso Marinetti tentò di imporre nella seconda fase del futurismo (dal 1914 circa in poi), questo primo grande movimento d’avanguardia europeo non fu certo, né prima né dopo, un monolite, ma brulicò invece d’una pluralità piuttosto accentuata – prima distrattamente liquidata, poi ferocemente osteggiata – di voci e tonalità. Ma ciò che caratterizzò la fase iniziale del futurismo fu senza dubbio l’estrema libertà artistica di cui i suoi componenti godevano. Una libertà spesso basata su una sostanziale pigrizia critica nei confronti delle particolarità che pure in quella stessa libertà si rivelavano, per cui l’importante era solo di chiarirneil grado di vicinanza al futurismo. Ma anche una libertà che, come constatò Giovanni Papini in una lettera ad Ardengo Soffici del 12 gennaio 1913, saggiando il terreno per una collaborazione con la neonata Lacerba col gruppo futurista, salvava i futuristi «dai molti pericoli degli agglomerati», poiché «quando un gruppo non ha quasi altro principio che la libertà (libertà verso il nuovo, cioè verso il differente, verso l’arte che non è ripetizione) è difficile che si muti in mafia letteraria». Ancora Papini scrisse, nei giorni della sua cauta adesione al movimento: «la parola “futurismo” ha poca importanza: è una semplice bandiera di raccolta, è il simbolo verbale d’una tendenza».
Il movimento futurista non fu mai, né prima né dopo, un monolite, ma brulicò invece d’una pluralità di voci e tonalità
Il futurismo, per questo e per molto altro, seppe quindi esercitare al suo principio – prima di diventare per l’appunto, smentendo l’ottimismo di Papini, «mafia letteraria» – un notevole fascino su tanti giovani artisti, che in esso videro un’insperata occasione di emergere nei campi dell’arte e della cultura, fino ad allora esclusivo appannaggio della schiera di studiosi ancora immersa, scrive nel 1913 il giornalista Vittorio Cuttin, nella «patena del classicismo e tra i fiori – ormai polverosi – del romanticismo»; e Marinetti, da parte sua, seppe allora accogliere, sempre con retorico entusiasmo e mai con accademico elitarismo, i più disparati spiriti, purché avessero in sé radicato il germe dell’«odio per i sentieri battuti». Così per il ventiquattrenne fiorentino Aldo Palazzeschi, che nel maggio 1909 (il «Manifesto del Futurismo» datava 20 febbraio dello stesso anno), a seguito dell’invio dei suoi Poemi, si vide recapitare una calorosa lettera dalla redazione di Poesia, recante la firma del più crepitante dei futuristi: F. T. Marinetti. Queste le calorose parole che il gigante poeta rivolse all’«umile» e «buffo» ragazzo:
I vostri poemi mi hanno vivissimamente interessato per tutto ciò che rivelano in voi di non ancora espresso e di sicuramente originale. Vi è – nel vostro volume – come già nei Cavalli bianchi, un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talvolta riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova.
Inizia allora un singolare sodalizio artistico e umano, testimoniato da un intenso (seppur spesso lacunoso per la parte di Palazzeschi) carteggio durato dal 1909 al 1914, fra due individui di opposta indole che fortissimamente e senza riserve hanno condiviso, per un’incredibile combinazione di affinità, la stessa ansiosa passione per la giovinezza e uno spericolato spirito «incendiario». E forse, almeno dal punto di vista intellettuale, nient’altro. Nel convegno fiorentino del 1976 Edoardo Sanguineti osserva con estrema pregnanza che «non c’è una sola riga di Palazzeschi che mai corrisponderà a nessuno dei principi enunciati dal manifesto». L’unico punto di contatto con Marinetti sarebbe, per Sanguineti, la «metafora […] della distruzione col fuoco», che pure li accomuna spesso in modo asimmetrico. Se in Palazzeschi, infatti, un simile motivo resta un intento puramente poetico, in Marinetti assume i tratti violenti della guerra purificatrice, «sola igiene del mondo», ed evoca la distruzione tutt’altro che poetica dei simboli della tradizione «passatista» (musei, biblioteche, accademie ecc.). Questi sentimenti vivono in Palazzeschi non con minore intensità, ma ad un livello eminentemente intellettuale, ideologico: disprezza ufficialmente i vecchi luoghi della cultura, ma i registri delle biblioteche di Firenze dimostrano che ne fruisce regolarmente; auspica la vittoria trionfante del movimento futurista, ma rimane perplesso, come suggerisce una lettera di Marinetti a Palazzeschi dell’ottobre 1913, sul partecipare alle azioni corsare di volantinaggio stradale; sa appiccare parole «incendiarie», ma alla tumultuosa modernità milanese preferisce la tranquilla solitudine di Settignano, dove può rimanersene «contemplativo, estatico come un indiano»; e partecipa (raramente) alle celebri «serate futuriste», ma la sua preoccupazione, ricorda il futurista Luciano Folgore nelle sue memorie, è «che non gli s’insudicino le scarpe o il vestito, altrimenti morirebbe di vergogna». Esile com’è nel temperamento e nel fisico, certo neanche si riconosce nei metodi maneschi dei suoi compagni. Dev’essere stata per questo certamente comica la scena di un mite fiorentino come Palazzeschi guidare, nell’estate 1911, la comitiva rissosa di Marinetti, Boccioni, Russolo e Carrà entro il Caffé delle Giubbe Rosse di Firenze a pestare Ardengo Soffici, che nel suo periodo fieramente anti-futurista osò stroncare in un articolo su La Voce i loro quadri; e probabilmente non sbaglieremmo a figurarci il giovane poeta in un angolo ad osservare imbarazzato la scena. Era, insomma, come fu chiaro fin dall’inizio a tutti i futuristi, «un grande poeta geniale, originalissimo e ultrapotente, al quale non manca che una vita veramente futurista» (lettera di Marinetti a Palazzeschi, gennaio 1912).
Quando Palazzeschi partecipa alle serate futuriste, ricorda Luciano Folgore, la sua preoccupazione è «che non gli s’insudicino le scarpe e il vestito»
Ma se, da un lato, in queste incolmabili distanze artistiche e umane possiamo intravedere i presagi di una inevitabile rottura (avvenuta pubblicamente nell’aprile 1914), dall’altro non è lecito abusarne per scovare in Palazzeschi una qualche prova che la sua adesione al futurismo fu poco più che formale o che l’amicizia con Marinetti fu priva di sincero affetto. Il carteggio testimonia, al contrario, di un rapporto elettivo che non lascia spazio all’inautentico, lusso per chi ha tempo da perdere e non una giovinezza da conquistare. Tuttavia, come suggerisce intelligentemente Luciano De Maria nella presentazione al carteggio, i due amici vissero molto diversamente anche quello stesso rapporto: perlopiù telegrafico e «alieno da abbandoni e ceselli psicologici», tolte le prime lettere entusiastiche traboccanti di -issimi testimoni del coup de foudre iniziale, Marinetti visse per larga parte il rapporto con Palazzeschi come un’amicizia schiettamente futurista, come d’altronde gli imponeva la sua decisione di «esistere e agire in funzione del movimento»; da parte di Palazzeschi, invece, ci furono un abbandono ed un affetto totali, provati nel carteggio da una costante inclinazione alla confessione e all’introspezione, con l’entusiasmo e il tormento di un figlio che parla ad un padre troppo occupato. Palazzeschi, nell’appendice a una delle lettere, definisce scherzosamente questo tipo di rapporto evocando la metafora della pulce e dell’elefante, compagni perfetti proprio perché talmente diversi che le loro doti non potrebbero mai entrare in conflitto: all’elefante sarebbe impossibile schiacciare la pulce con una zampa, e la pulce fallirebbe di certo se tentasse di ferire l’elefante con un morso.
Alla rottura col futurismo l’amico Buzzi scrive a Palazzeschi: «Ma credi, carissimo, che tu nell’Uomo della Casa Rossa [Marinetti], hai più colpito l’amico che non il futurista»
Quel padre troppo occupato che era Marinetti, però, scoprì ben presto quanta violenza e quanta spietatezza possono scaturire da un figlio che cresce e si ribella: la questione dell’intervento in guerra e quella delle parole in libertà (il nuovo indirizzo artistico cui Marinetti tentò di costringere i futuristi), alle quali Palazzeschi non intendeva aderire, lo spinsero nell’aprile del 1914 a mutare certe crescenti perplessità in una risolutiva rottura con Marinetti e l’intero movimento, colpendo violentissimamente nell’amico la midolla umana e ben meno il guscio futurista. Basti a dimostrarlo quanto il 13 maggio 1914 scrive a Palazzeschi Paolo Buzzi, amico comune dei due poeti, che riporta così la reazione di Marinetti alla rottura: «Ma credi, carissimo, che tu nell’Uomo della Casa Rossa [Marinetti], hai più colpito l’amico che non il futurista. Egli mi mostrò la tua lettera enigmatica: era pallido».
I due poeti non si scrissero né frequentarono più fino a venti anni dopo, quando Marinetti, nel 1934, suggerì a Mussolini il nome di Palazzeschi per la nomina all’Accademia d’Italia. Venutolo a sapere quando, ormai, simile eventualità era già caduta per volere del Duce, il non più giovane poeta inviò in risposta al vecchio amico una lettera incredula, ma commossa e piena di gratitudine per aver risvegliato, con quella generosa e inaspettata iniziativa – del cui fallimento, in ogni caso, si dichiarò sollevato –, il ricordo dei suoi anni migliori: i suoi vent’anni, dei quali Aldo lo considererà sempre il più grande padre.
Pubblicato su L'Eco del Nulla N.4, "Conflitti", Inverno 2015
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