La notte di Oscar
Da-Da-Da
Così, tra un componimento di Tzara e un’opera di Duchamp, siede nella sua comoda poltrona il guru della trasparenza. Alla vigilia della premiazione, la luce del televisore illumina il volto segnato. Panciotto dorato decorato da fiorellini rossi, sobria cravatta verde a pois e ghette à la Zio Paperone, con cui condivide l’innata indole economica, riflette assorto nei suoi foschi pensieri. Negli ultimi giorni, passato nella mente dei suoi sostenitori da speranza a tradimento come il migliore dei BisLoscus, è stato colpito laddove la sua gloria poneva le fondamenta più solide.
Abdicato allo scranno come uno stanco Papi, altrettanto sgargiante nelle vesti e nei toni, ha lasciato la guida a una giovane Silvia Enrico, novizia leader già alle prese con la prima importante decisione, farsi chiamare con un’informale Silvia o tirare fuori gli attributi da Enrico? Il nostro guru in questo non sa aiutarla, impegnato com’è a giocherellare con il suo cappello a cilindro da provetto Fred Astaire.
Riporta alla mente di quando, gracile e puro, scorrazzando libero per le strade di Zurigo – o era Londra? – aveva fatto fortuna vendendo mele. Suo padre gli aveva donato dieci scellini – subito cambiati in sesterzi, perché fossero più in tono con l’età degli abiti che portava – ed egli, pronto investitore, aveva comprato una mela a cinque sesterzi. Rivenduta quella mela al doppio del prezzo, con il ricavo comprò due mele, vendendole a venti sesterzi. Ricavatone quindi il doppio, comprò altre quattro mele. Arrivato a cinquanta mele, suo padre morì ed egli ereditò quindici milioni di euro. Ripensandoci bene, non è certo che quella storia sia la sua. È di qualcun altro, forse. Si sforza, tenta di ricordare. La memoria gli gioca brutti scherzi: non ricorda più in che modo aveva sbagliato ad applicare lo shampo, non ricorda nemmeno il motivo per cui si cosparse il mento di Crescina (probabilmente una cosa tirò l’altra). E come in una brutta copia di Blade Runner, tutti i ricordi gli sembrano impiantati, sintetici, manipolati. I suoi, e quelli che di lui hanno gli altri.
Eppure non ci tiene a smentire tutto, perché questa sua millantata intraprendenza ha dato i suoi frutti, nella stima che ogni economista che si rispetti adesso ha di lui. Da tutti ormai chiamato ma-gi-ster (dove Gi sta per ‘Giannino’ e Master sta per ‘Bufala’) equitum, per i Cavalieri che aveva di recente tentato di disarcionare, si rifugia dietro un castello di carte.
L’esule Zingaro di turno lo ha smascherato e lui, in circense equilibrio sulle sue fandonie, usa il bastone da funambolo per bilanciarsi tra i suoi titoli e le sue menzogne, ahimé ben più pesanti e numerose. E quando viene smentito persino dal Mago Zurlì, la vergogna traspare, come la carta su cui sono stampate le sue lauree, scritte con un inchiostro molto poco simpatico. Dalla sua poltrona, il calice di bianco sul tavolo sembra l’unica cosa davvero chiara della sua storia.
Pinocchio è forse l’unico che è riuscito a dirne di più grosse, ma almeno lui lo faceva Conlodi. Il guru, che invece ha zeru tituli, alita sul suo monocolo cercando di rischiararsi la vista, annebbiata dalla confusione degli ultimi tempi, incrociando le dita perché riesca almeno a superare la soglia e a fermare il proprio declino.
Un lampo dal televisore, la cerimonia comincia. In trepidante attesa dei primi risultati, ripone il libro sul tavolo e sprofonda nella poltrona portandosi alla bocca il bicchiere. Così, tra un’opera di Duchamp e un componimento di Tzara, ha inizio la notte di Oscar.
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