La musica dei Medici

Heinrich Isaac e la celebrazione del nuovo potere signorile

Nel 1454 si firmava la Pace di Lodi. Ma il mondo a cui quel trattato doveva dare equilibrio non era più quello dei comuni: a Milano c’era un Duca, a Venezia l’oligarchia del Maggior Consiglio, a Roma il papa in lotta per l’assolutismo, a Napoli il re d’Aragona. La quinta potenza era Firenze, dove gli ordinamenti repubblicani regnavano, ma governavano i Medici. Diversamente da Venezia, repubblica anch’essa, Firenze voleva un unico pilastro per l’edificio del potere, un’unica famiglia dominante. Nella lotta tra i Medici e gli Albizzi furono i primi a spuntarla; e Cosimo il Vecchio progettò bene il suo palazzo.  Assoggettò al suo arbitrio i sistemi clientelari da sempre alla base della politica fiorentina; lasciò invariati gli ordinamenti repubblicani, ma li piegò al suo volere. Mise sotto controllo il sistema elettorale per manovrare le istituzioni dall’interno; si legò le casate maggiori coi matrimoni della sua prole. Il suo potere aveva bisogno di legittimarsi: pubblico e privato, ufficialità e informalità si mescolavano apertamente. Se più tardi si diede una spinta più palesemente oligarchica – la creazione di Consigli ristretti come quello dei Cento – all’inizio Cosimo si fece bastare le forme del clientelismo.

Tra le molte ce n’è una che è ben nota al nostro immaginario, ma il cui nome ce ne nasconde l’essenza: mecenatismo. Le logiche della committenza erano molto vincolanti per quello che si chiamava ancora artefice, come un carraio, anche se era Giotto; e come ogni altra forma di clientelismo il patronage aveva le sue ricadute politiche, non meno forti che indirette. Quel che pittori, scultori e architettori facevano al servizio dei potenti dava fiato ad una propaganda che puntava alla celebrazione pubblica di signori in consolidamento, alla formazione di un debito pubblico di riconoscenza nei confronti di chi, a sue spese, dava lustro alla città. Cosimo il Vecchio fece fare a Michelozzo il Palazzo Medici che è oggi Medici-Riccardi; là chiese a Benozzo Gozzoli quel Passaggio dei Magi che è anche la rappresentazione del gran Concilio fiorentino del 1439, cui dotti di tutto l’Ecumene greco accorsero per discutere il riavvicinamento delle Chiese. Cosimo stesso aveva promosso lo spostamento del Concilio da Ferrara a Firenze, e fu lui a raccogliere quel Corpus Hermeticum di antichi codici da cui Marsilio Ficino distillò quella dottrina platonica che fu la linfa vitale del Rinascimento. Così Cosimo guadagnò per epitaffio pater patriae; ma il mecenate per eccellenza, nell’immaginario collettivo – cioè il patrono, il demiurgo di legami clientelari dove la cultura era, che piaccia o no, ancella della politica – è Lorenzo il Magnifico. Sarebbe ben ripetitivo dilungarsi qui su quanto Pulci, Poliziano, Verrocchio, Sangallo, Lippi, Botticelli, Ficino, Mirandola e Maiano e tutti gli altri abbiano dato alla Firenze di Lorenzo; sterminata è la letteratura in materia; così come ben noto è il folto e variegato retroterra sociale e politico che diede modo di svilupparsi a quel fermento artistico cui i Medici attinsero largamente.

Era ovvio che la portentosa (ancorché necessaria) bramosia di committenza di Lorenzo – saziata appena da incarichi tanto più rilevanti quanto più influente risultava la sua personalità – non potesse racchiudersi entro ritrosie elitarie, anguste e, in un momento in cui a tutto si poteva pensare tranne che a guardarsi indietro, decisamente demodé. Era giunto il momento di affiancare al culto delle antiche, nobili arti un impegno rivolto a forme che, sebbene senza dubbio più volgari, non sarebbero risultate, però, meno incisive.
Contro l’agguerrita oligarchia che presto i Medici si erano trovati a fronteggiare, a stento sarebbe bastato lo sfarzo di un palazzo (gli Strozzi riuscirono a mettere a repentaglio la propria sopravvivenza nel tentativo di superare il fastoso progetto di Cosimo), ma sugli umori del popolino un’arte che, come quella ufficiale, esauriva il suo ciclo vitale nelle rinserrate chiusure dei palazzi, non avrebbe avuto che un influsso passeggero e risultati tutt’altro che assicurati. Col tempo la maestosa fronte di un palazzo non avrebbe più meravigliato nessuno, proprio come la mole del palazzo della Signoria (nell’austera solidità dei suoi volumi) non aveva impedito che le famiglie più potenti facessero scempio di quelle istituzioni repubblicane di cui il palazzo celebrava la potenza, volgendole ai proprî desiderî.
Non fu, quindi, un caso che proprio a Firenze e proprio in quegl’anni, Lorenzo, non senza lungimiranza, sentisse l’esigenza di contornarsi, tra gli altri artisti, di musici.
Firenze, infatti, non era nuova ai frutti dell’arte musicale. Accanto alla floridità popolare e alle tradizionali forme della musica sacra, le nuovissime tendenze nate dalla vecchia prassi polifonica francese avevano trovato un fertile terreno in cui attecchire e fruttificare figure di primo piano che dalla musica strumentale, andavano alle canzoni monodiche e su, su fino alla complessa architettura virtuosistica (flamboyant, verrebbe da dire) dell’ars subtilior. Né, in simili fermenti, alla raffinatezza compositiva potevano non accompagnarsi i più arditi virtuosismi esecutivi.
Una tale, abbondante fertilità non era potuta rimanere oscura a lungo: nell’arco di poco più di un secolo figure quali Francesco Landini e Antonio Squarcialupi avevano attratto, nella sola città di Firenze, lodi e orecchie da tutta Europa. Non solo: un compositore della caratura di Guillaume Dufay (uno dei compositori più influenti – se non il maggiore – della scena musicale europea attorno al millequattrocento) aveva fatto dono alla città di composizioni dai più diversi caratteri, dal celebrativo, al gioioso, sino all’omaggio reverente del mottetto che, alla presenza del papa, salutò la consacrazione della Cattedrale di Santa Maria del Fiore con accenti «che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra».

In un tale fiorire e operare di personalità tutte diverse e ugualmente eccellenti, Lorenzo riuscì a coniugare il personale e privato patrocinio all’arte musicale – delizia delle orecchie nobili come di quelle plebee – con l’ufficialità formale che solamente una sostanziale padronanza degli apparati pubblici avrebbe reso possibile o, quantomeno, politicamente raccomandabile. E se, pure, le committenze non saranno mai vere e proprie cortigianerie – allo Squarcialupi, come a Isaac, la cortigianeria si addice tanto quanto poco alla figura di Lorenzo si addice una signoria giuridicamente definita e stabilizzata – certo le pubbliche esecuzioni delle opere composte da quei musicisti che i Medici accolsero nel proprio entourage, non mancheranno mai di annunciare e magnificare a gran voce il nome dei committenti. E ciò a tal punto che si rese praticamente necessario, per chi, di talento, avesse avuto a cuore una carriera spedita e gloriosa in Firenze, avere le palle in bocca (o, almeno, sulla punta delle dita).
Se, infatti, Dufay aveva salutato Firenze «fiore delle toscane genti», cinquanta anni dopo, Heinrich Isaac (il nuovo portento musicale che il genio di Lorenzo aveva procurato alla città dai territorî d’oltralpe), appena arrivato alle dipendenze dei Medici, si era immediatamente adoperato perché nei solenni cortei cittadini si desse degna intonazione, con squilli di tromba e fanfare, alla pubblica esaltazione della maggiore famiglia cittadina.
Le impressioni che da Innsbruck, dove ricopriva l’incarico di compositore di corte, aveva fatto sul capo della famiglia Medici, avrebbero potuto ben poco se, alla maestria personale, non avesse aggiunto qualcosa veramente degna dell’eccezionalità del committente e del potere che lo aveva fatto scendere sino in Toscana.
Fu così che a pochi mesi dal suo arrivo, il grido di Palle! Palle! Palle! (che già aveva salutato, sei anni prima, Lorenzo, sopravvissuto alla furia dei Pazzi) risuonò nella gioiosa, danzante policromia di un mottetto polifonico.


In collaborazione con Emanuele Giusti


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