La mia vita con John F. Donovan di Xavier Dolan

con Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Susan Sarandon, Kathy Bates, Ben Schnetzer, Thandie Newton

L’affermata giornalista Audrey Newhouse (T. Newton) si ritrova, suo malgrado, a dover intervistare un giovane attore (B. Schnetzer), autore del libro autobiografico in cui ha raccontato la lunga corrispondenza avuta da bambino col suo idolo d’infanzia, John F. Donovan (K. Harington), stella della tv e del cinema americani idolatrata anche in Europa, che scomparirà a soli ventinove anni per overdose. Sul doppio binario 2006-2017 ed Europa-Stati Uniti, che scorre lungo i ricordi di Rupert Turner confessati alla diffidente Audrey, si dirameranno le crepe vacillanti della celebrità e del successo, quelle familiari e persino quelle che possono insinuarsi nei neonati sogni di un bambino. I due protagonisti, perfettamente incastrati in una sorta di proiezione reciproca, condividono stati d’animo e forme di discriminazione, entrambi protesi a occultare a loro modo la verità: l’uno con la maschera specifica dell’attore, l’altro con quella delle bugie bianche che contraddistinguono gli anni dell’infanzia. E sul terreno condiviso e sincero delle loro lettere, scritte a penna e con un denso inchiostro verde, Rupert e John cercano esattamente quella verità da cui fuggono nella vita reale, una verità che pare prender forma nei contorni sfumati della figura della madre (N. Portman la madre di Rupert, S. Sarandon quella di John), nel cui rapporto, conflittuale e al contempo straripante per entrambi, c’è – sopra ogni cosa – un sereno e confortevole approdo.

La settima opera di Xavier Dolan La mia vita con John F. Donovan – la prima in lingua inglese: Death and Life of John F. Donovan il titolo originale – fa storcere il naso alla stampa internazionale dopo l’anteprima mondiale al Toronto Film Festival e viene etichettata come la peggiore della carriera del talentuoso regista canadese. L’atteso film, distribuito in Italia da Lucky Red a quasi un anno di distanza dal suo travagliato concepimento – e poco dopo la presentazione a Cannes della nuova pellicola di Dolan Matthias & Maxime –, ha avuto una gestazione complessa, un difficoltoso percorso di montaggio che portò Dolan a rifiutare l’invito a Cannes nel 2018 e, persino, a tagliare in toto il personaggio interpretato da Jessica Chastain «per scelta narrativa». Del resto, ospite nel 2017 alla Festa del Cinema di Roma, lo aveva detto chiaramente: «Come bilancio i sentimenti nei miei film? Mi interessa che il film funzioni istintivamente, riguarda gli attori e le attrici. Credo che si debba rimanere fedeli ai propri istinti e seguirli, grazie all’amore per i tuoi personaggi e per la storia. L’equilibrio così arriva da solo, anche se sento che i miei film ne sono tutti privi». Fedele come sempre al suo istinto e alle sue passioni, Dolan si lascia allora ispirare dalla sua stessa infanzia, costruendo una storia che affonda le proprie radici in uno specifico episodio della sua vita. Attore già da bambino come il Rupert del film, Xavier scrisse infatti una lettera appassionata al suo idolo del tempo, di cui conservava dei poster in camera: era il Leonardo DiCaprio di Titanic, stella di Hollywood in ascesa che, al contrario della sua proiezione cinematografica John F. Donovan, mai risponderà al suo giovanissimo estimatore.
 

Come il Rupert del film, Xavier Dolan scrisse una lettera appassionata al suo idolo del tempo, di cui conservava dei poster in camera: era il Leonardo DiCaprio di Titanic


Al suo settimo film, l’enfant prodige del cinema contemporaneo – come viene definito con retorica a volte svilente – è così chiamato a una agognata prova di maturità registica, che qui si manifesta in maniera non del tutto compiuta e attraverso una sobrietà che sembra assai lontana dalla sfacciataggine incontrollata dei suoi primi film a cui deve il suo successo. Lo sfrontato autocompiacimento, però, non è ancora domo e quella sobrietà si inceppa, inciampando al contempo in una struttura narrativa imperfetta, piena di dialoghi fittissimi. Ma nonostante l’impeto di parole che avvolge i suoi personaggi, Dolan non rinuncia mai a dire le cose con le immagini e con quella potenza espressiva esplosiva che lo contraddistingue come cineasta unico e inconfondibile. «Lo stile è sapere chi sei», recita il patinato manifesto che maschera le fragilità di John F. Donovan – ruolo che calza perfettamente al patinato Kit Harington, il Jon Snow Game of Thrones – ostentando nel suo volto fiero una sicurezza assai lontana da ciò che in realtà pensa e prova. Ma se su quel manifesto ci fosse lo sguardo di Dolan forse nessuno avrebbe da storcere il naso, alla luce di una innata e innegabile padronanza del linguaggio che gli permette di arrivare dritto allo spettatore, anche cambiando improvvisamente registro formale.

La prima scena in cui John torna a casa, ad esempio, è inaspettatamente ripresa come una sorta di backstage, con zoomate e sporcature alla Von Trier; come se il protagonista, prigioniero della sua maschera anche nel contesto familiare, fosse guardato con gli occhi indiscreti di chi spia una star: anche quelli, degli occhi a cui dover mentire e con i quali dover dissimulare. Il vertice di quella piramide familiare caotica – come sempre nei film di Dolan, soprattutto nell’ultimo È solo la fine del mondo – è una madre imperfetta e impacciata, volgarotta e sopra le righe, una madre che dietro la durezza di occhi infelici sa ancora guardare con dolcezza i propri figli mentre cantano al grido di Hanging by a Moment dei Lifehouse. Un meccanismo rodato, quello musicale, ripetuto in una scena quasi simmetrica in cui Rupert commenta elettrizzato un episodio della serie tv che vede protagonista il suo idolo John F. Donovan, la mamma lo guarda con un sorriso protettivo e malinconico e le note di Adam’s Song dei Blink 182 si fanno spazio tra le immagini dei due.
 

È ancora una volta nell’ode alla madre che si manifesta la purezza dello sguardo di Dolan


È ancora una volta nell’ode alla madre che si manifesta la purezza dello sguardo di Dolan, un quadro cristallino della sua intera cinematografia. Nel doppio binario che vede in relazione due mondi lontani – quello del piccolo fan e quello dell’attore affermato – si stagliano dunque le due figure materne a cui entrambi i protagonisti nascondono le più intime verità, lasciando ogni confessione al racconto silente e straripante di un amore incondizionato. Le straordinarie interpreti Natalie Portman e Susan Sarandon vengono così ugualmente immortalate da Dolan in un sorriso sospeso e senza tempo che sembra rimanere eterno sul quadro. E lì, al di là delle lacune strutturali, che si cela la verità del film. «Vivi prima di mentire», scrive John nell’ultima lettera giunta in un hotel di Londra al piccolo Rupert col consueto impasto d’inchiostro verde. Un monito che, trasposto sullo schermo, non può che incarnare perfettamente il credo e l’autenticità del cinema di Xavier Dolan.

«C’è un momento in cui la maschera si spacca, vero?»
USA 2018 – Dramm. 123’ ★★★


Commenta