La mente del giornalismo
Il giornalismo che spiega la psicologia che spiega la politica
Ciò che né La Stampa né il Giornale sembrano avere constatato è che, qualunque siano le regioni cerebrali che spingono gli uomini a fidarsi di un principio etico piuttosto che un altro, questi (i principi o ideali) hanno o dovrebbero avere una loro intrinseca giustezza, cioè una propria ragione d’esistere. Ed è proprio questa giustezza che dovrebbe risultare protagonista nelle ricerche dei giornalisti. La solidarietà verso il prossimo tipica dei sensibili uomini di sinistra o la capacità di rimanere attaccati ai valori naturali della famiglia e della religiosità tipici dei conservatori di destra, in quanto principi morali, non dovrebbero essere discussi in relazione ad una particolare predisposizione cerebrale. Dovrebbero essere principi accolti da individui capaci di pensare con entrambi gli emisferi (cosa che naturalmente accade, scientificamente parlando); individui che comprendono i principi per ciò che essi trasmettono, per ciò che esprimono e per le conseguenze pratiche che comporterebbero se fossero accettati. In una parola: andrebbero discussi per ciò che essi significano.
Dall’antica Grecia fino a un secolo fa, la giustizia, la bontà, la pietà e ogni altra virtù, veniva argomentata per la sua potenzialità espressiva, per il suo contributo veritativo, e non invece in relazione alla composizione fisiologica del cervello di chi l’accoglie. Al contrario, nel tentativo di conferire dignità alla destra o alla sinistra, ai democratici o ai repubblicani mediante l’anatomia umana, un certo giornalismo di divulgazione politico-scientifica finisce per sospendere un’autentica discussione sui significati obiettivi, condivisi e condivisibili, dei principi morali che muovono le società. Sono questi a nobilitare l’uomo pensante che li accoglie, e non la sua innata predominanza cerebrale.
Inoltre (sembra banale a dirsi) l’evoluzione naturale dell’uomo, cioè il percorso che lo ha condotto a divenire un essere differente da qualunque altro sul pianeta Terra, ha permesso un’interazione complessiva tra i due emisferi cerebrali. Un’interazione che è integrazione tra le mansioni dell’uno e dell’altro lato del cervello. Questo è il vero significato del termine pensare: congiunzione e comunicazione delle nostre potenzialità logiche e sentimentali.
Quando la Barbieri citava Haidt nel dire che l’intuizione ed il sentimento sono la base su cui si costruisce il giudizio razionale, sembrava si fosse avvicinata a questa “banale” conclusione: l’uomo è unità di emozione e ragione, logica-linguistica ed elaborazione sensibile. Ma subito dopo ella continua imperterrita nel sostenere, travisando probabilmente lo stesso Haidt, che chi ha l’emisfero “emotivo” predominante è più dotato e recettivo di chi invece ha predominante il sinistro, cioè l’elettore democratico. Ma se è anche vero che l’argomento democratico è meno convincente di quello repubblicano, è altrettanto vero che chi ascolta tali argomenti mantenga attive entrambe le aree del cervello, quella emotiva e quella razionale. O forse, contraddicendosi o dimenticandosi l’assunto precedente, la Barbieri suppone che non ci sia possibilità d’accordo tra giudizio ed intuizione, emisfero destro e sinistro? Ancora una volta ed ancora di più, addirittura all’interno dello stesso articolo, si sacrifica l’unità essenziale dell’uomo per mostrare scientificamente come mai una fazione politica ha più valore di un’altra.
Perché il problema è proprio questo: il come. Alla base delle distorsioni procurate dal giornalismo politico che spiega la psicologia, infatti, vi è un’altra profonda distorsione: l’uomo moderno, volente o nolente, è erede dell’Illuminismo e del positivismo. Egli concede spazio e valore epistemologico solo e soltanto alle ricerche scientifiche. Con ‘scientifiche’, oggi, s’intendono troppo spesso le ricerche sull’aspetto materiale della realtà. Si parla, infatti, di “scienze naturalistiche”, intese come le discipline che studiano i soli dati fisici del reale. Ma una ricerca sulla natura materiale delle cose, come la psicologia, che a sua volta poggia sulle ricerche anatomico-fisiologiche della neurologia, non può pretendere di dare spiegazione a quello che vien detto un “principio etico”. La neurologia (quindi la psicologia) fonda la sua esperienza e la sua conoscenza sulla materia nervosa, cerebrale, cioè sul fisico dell’uomo. Di questo, essa può dire come funziona, ma non perché. Può dire come è fatto il cervello di un uomo che per natura protende più per la destra che per la sinistra, ma non può dire perché gli argomenti della destra o della sinistra sono oggetto d’empatia e persuasione per quello stesso cervello che li trova stimolanti. Questi “oggetti” non sono e non possono essere d’interesse della psicologia, ma dovrebbero esserlo, invece, della filosofia, della pedagogia, della politica e, sì, anche del giornalismo che intende spiegare e approfondire temi socialmente rilevanti.
Sull’onda del paradigma scientista dominante, invece, il giornalismo divulgativo lascia trionfare l’analisi dell’anatomia cerebrale sull’analisi del perché proprio quel particolare oggetto teorico stimoli i nostri sensi e solleciti le nostre reazioni psico-fisiche.
Volendo approssimare uno schema conclusivo, possiamo immaginare la seguente scala di distorsioni intellettuali. Alla base sta la scienza ed il pensiero scientifico corrente, votato alla materialità e alla scoperta del come piuttosto che del perché. Su questa prima distorsione s’innesta la divulgazione giornalistica, che già di per sé, proprio perché giornalistica, è incapace di rendicontare tutto ciò che dovrebbe su di un determinato argomento. Infine, su questa seconda, generica distorsione, si realizza quella specifica del giornalismo schierato politicamente con le sue pretese d’obiettività. Una distorsione sull’altra, un paradigma dentro l’altro, ma alla fine, come pensa, e soprattutto, cosa pensa l’uomo resta sempre il tema più interessante d’ogni ricerca.
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