La lotta sulla sperimentazione animale

Animali in laboratorio o metodi alternativi, quali sono le possibilità e i limiti della ricerca scientifica?

All'interno del terzo numero de L'Eco del Nulla, a tema Indagini e ricerche, abbiamo scelto di dedicare il Batti e Ribatti, la nostra rubrica dedicata a due visioni opposte su uno stesso tema di attualità, alla delicata questione della sperimentazione animale che da anni vede battersi da un lato chi vi si oppone per il benessere degli animali e dall'altra chi è a favore per il benessere dell'uomo e della ricerca. Per discuterne, abbiamo chiamato in causa Michela Kuan, biologa nutrizionista e responsabile nazionale della LAV, e Giulia Corsini, medico veterinario e consigliere di Pro-Test Italia, che in passato ha vissuto episodi spiacevoli con le frange estremiste del mondo animalista arrivate persino alle minacce di morte. Con l'intenzione di proporre ai nostri lettori un dibattito più civile e costruttivo, abbiamo voluto mettere a confronto le due realtà in questo Batti e Ribatti, che vi proponiamo qui sotto (e sfogliabile in anteprima al link Batti e Ribatti - Sperimentazione animale). Cogliamo l'occasione per ringraziare Michela Kuan e Giulia Corsini per essere intervenute e il presidente della LAV Gianluca Felicetti per la disponibilità. Buona lettura da L'Eco del Nulla
 

Contro la sperimentazione animale
Michela Kuan, biologa nutrizionista e responsabile nazionale della LAV

La sperimentazione animale è un fenomeno italiano e globale, che non accenna a diminuire; infatti nonostante lo scenario scientifico nazionale ed europeo sia sempre più rivolto alla promozione di metodi sostitutivi all’impiego di animali, i numeri legati alla sperimentazione, sono allarmanti, arrivando a 2.328.342 animali utilizzati in Italia dal 2010 al 2012 (fonte GU n. 53 del 5-3-2011), 12 milioni di animali nei laboratori europei e 115 milioni nel mondo; dati fortemente sottostimati in quanto non includono invertebrati, forme fetali e animali, o parti di essi, utilizzati già soppressi.
Oltre alle ovvie implicazioni etiche legate allo sfruttamento, maltrattamento e uccisione degli animali (il 15% dei test viene effettuato senza anestesia, migliaia di animali subiscono quotidianamente fratture ossee, abrasioni, impianti nel cranio, trapianti di organi senza farmaci che possano limitare il dolore arrivando alla morte anche dopo giorni e settimane) è fondamentale sottolineare come esistano anche oggettive dimostrazioni contro la sperimentazione animale come modello di ricerca.
Infatti, persino in campo farmacologico, un’indagine statistica, condotta tra il 1991 e il 2000, ha dimostrato come solo il 10% dei farmaci che riusciva a passare ai test clinici, veniva, poi, approvata dalle farmacopee europee e americane. Nel 2006 Mike Leavit (US Secretary of Health and Human Services) ha dichiarato: «Al momento, il 90% delle nuove molecole che passano ai test clinici fallisce, questo è dovuto alla inaffidabilità dei test condotti sugli animali sulla quale si basa la predittività per l’uomo». Inoltre, della piccola percentuale dei nuovi composti che passa alla fase clinica, più della metà mostra affetti avversi non diagnosticati durante i test precedenti e vengono, quindi, eliminati o modificati nella etichettatura di vendita.
A tal riguardo è utile sapere che il tasso di segnalazione di eventi avversi da farmaci è praticamente raddoppiato tra il 2006 e il 2008, passando da 108 segnalazioni per milione di abitanti a 196, con un trend in aumento; come ha dichiarato provocatoriamente la giornalista Jessica Fraser «le statistiche dimostrano come i farmaci siano del 16.400% più letali dei terroristi».

L’industria vivisettoria è ben lontana dal lodevole fine di curare la nostra specie diventando un inarrestabile ingranaggio che basa, sugli ingenti interessi economici, le sue fondamenta. La ricerca compie lenti progressi anche perché fortemente vincolata dall’obbligo del ricorso al modello animale che non solo risulta obsoleto e fuorviante, ma anche eticamente pericoloso per l’uomo.
Ogni anno milioni di animali sono utilizzati negli esperimenti e muoiono per testare molecole che non saranno mai immesse sul mercato o per lanciare miracolose cure che cadranno puntualmente nel nulla, meccanismo che riflette un quadro giuridico arretrato dove il ricorso all’animale era visto come passaggio necessario per la sicurezza umana, ma che si è rivelato fallace alla luce dei metodi alternativi e dell’approccio scientifico odierno.
Tali metodi, spesso ridicolizzati o osteggiati da chi usa gli animali, sono in realtà scientificamente riconosciuti dal 1959 e visti come totalmente prioritari sia dalla legge italiana che dalle norme internazionali.
Al momento attuale vi sono molte importanti scoperte mediche che non vengono accettate perché non possono essere “provate” da esperimenti animali, benché siano solidamente basate sull’evidenza clinica. Un esempio è la scoperta che un basso livello di radiazione su di un padre o una madre può causare la leucemia nei discendenti, anche se la radiazione avviene prima del concepimento. Questa scoperta non è confermata da esperimenti animali. Poiché gli animali da laboratorio danno i risultati più svariati, si può dimostrare o confermare qualsiasi ipotesi si desideri.

Su 3000 trattamenti medici utilizzati oggi, solo l’11% è di dimostrata efficacia e l’80% dei “nuovi farmaci” non sono che copie più care di quelli vecchi. La stessa AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha diffuso una campagna pubblicitaria la scorsa estate per tutelare i bambini dall’abuso di farmaci per adulti. Le motivazioni sono chiare: il bambino non è un piccolo adulto. Quindi ci sono evidenti differenze nella metabolizzazione e assorbimento dei composti farmaceutici e non basta dimezzare le dosi perché non è solo una questione di quantità, ma allora una domanda sorge spontanea: se l’uomo adulto non è un buon modello per il bambino che è un rappresentante giovanile della stessa specie, come mai tutti i farmaci vengono testati su animali che sono radicalmente altro? L’AIFA sottolinea la diversa metabolizzazione dei farmaci e i rischi che ne conseguono nelle diverse età, ma tace sul fatto che proprio gli stessi composti vengono settati su topi e ratti… come possono, quindi, essere sicuri?! Al momento oltre il 50% dei farmaci pediatrici è testato solo su adulti (di solito maschi), un dato allarmante che pone dei seri vincoli etici e che espone a gravi rischi i bambini già fisicamente più sensibili a trattenere sostanze potenzialmente tossiche.
Essere contro la sperimentazione animale significa lottare per il diritto alla vita di tutti, per una scienza che dia reali speranze ai malati e per il riscatto del nostro Paese che resta tra i fanalini di coda dell’Europa.


Una panoramica sulla sperimentazione animale
Giulia Corsini, medico veterinario, fondatrice e consigliere di Pro-Test Italia

Che piaccia o meno nella ricerca biomedica il contributo della Sperimentazione Animale (da qui in poi S.A.) è essenziale. Lo dimostrano non solo le centinaia di pubblicazioni su riviste scientifiche basate su di essa, ma addirittura i premi Nobel per la Medicina e per la Fisiologia – parliamo delle prestigiose onorificenze che premiano le più importanti scoperte in questo campo. Si tratta di innovazioni che vanno dal trapianto d’organo, agli antibiotici, ai vaccini: di 105 premi Nobel assegnati dal 1901 al 2014, 85 (81%) sono frutto di ricerche che hanno utilizzato modelli animali.
Come se non bastasse, malgrado chi accusa la S.A. cerchi di dipingere la questione come molto disputata sul piano scientifico, gli scienziati dimostrano sull’argomento una rara compattezza, come dimostra un sondaggio condotto dalla rivista Nature nel 2011: solo circa il 3% dei ricercatori biomedici non ritiene essenziale il ricorso ai modelli animali.
Non sorprende, data l’innegabile rilevanza della S.A. nella medicina, che i suoi oppositori spesso cerchino di spostare il discorso, finendo col mettere sotto accusa l’intera ricerca biomedica, piuttosto che la sola ricerca in vivo. Si arriva dunque a dire che l’intera ricerca biomedica sta “fallendo”, perché fa troppo affidamento al “modello animale”. Peccato che non ci sia niente di vero nella frase.

La realtà è che la vita media continua ad aumentare, la mortalità infantile è in calo. In generale la mortalità è in netta diminuzione anche per quelle patologie, come il cancro, rispetto alle quali si accusa la ricerca di star “fallendo”. La realtà è che non esiste “il” modello animale in senso assoluto, esistono tanti e diversi modelli animali, ognuno a suo modo utile per rispondere ai quesiti che lo scienziato si pone. La realtà è infine anche che i modelli animali sono sostituiti con metodi differenti ogni volta che ciò sia possibile.
Gli esperimenti su animali sono spesso solo una parte di un programma di ricerca al cui interno sono coinvolti tutta una serie di metodi differenti. Ciascun modello, animale e non, è caratterizzato da benefici e limiti: generalmente si tratta di metodi “diversi” che forniscono informazioni diverse. La ricerca biomedica prevede l’utilizzo integrato di metodi complementari e S.A. in modo da avere un quadro quanto più completo possibile del problema.
L’utilità del modello dipende dunque dalla natura della ricerca: può essere utile per capire delle caratteristiche della specie, o servire a comprendere meccanismi biologici condivisi da molte specie, o ancora a sviluppare de novo tecniche innovative.

I fallimenti, ovviamente, esistono, sono parte integrante della scienza. Se uno studio va male – tutti gli esperimenti possono andare male, che siano test su animali o di altro tipo –, si spera meglio per il prossimo. Ma gli oppositori tentano di sfruttare un tasso di fallimenti del tutto fisiologico per condannare l’intera S.A. Stanno andando ben oltre i propri scopi: se l’esistenza dei fallimenti provasse il fallimento della ricerca, ogni ricerca sarebbe inutile, animale e non.
La dimensione scientifica del problema è dunque più ampia di quanto si cerchi di farla sembrare, e un profano può perdervisi. Ma il compatto consenso dei ricercatori sulla questione dovrebbe essere sufficiente a accantonare questa parte del problema.
D’altro canto può sussistere, ovviamente, un dibattito sullo statuto morale degli animali che prescinda dal problema scientifico. Eppure, anche sotto questo aspetto, si rilevano stranezze. Ricordiamo che secondo le stime fornite dal Nuffield Council on Bioethics, topi ed altri roditori costituiscono l’87% delle cavie da laboratorio nel mondo; dunque, più che di una questione di statuto morale degli animali, si direbbe che per quasi il 90% la questione sia solo sullo statuto morale dei roditori.

Spesso gli oppositori alla S.A. si dilungano in fantasiose descrizioni da narrativa dell’orrore degli esperimenti, per spaventare i lettori, omettendo che negli anni la sensibilità nei confronti degli animali aumenta e le leggi si adeguano di conseguenza: la normativa europea, frutto di un lungo confronto tra scienziati, case farmaceutiche e associazioni per la difesa degli animali, si basa sul principio delle 3R: Riduzione del numero di animali, Raffinamento delle procedure, Rimpiazzo con metodi alternativi ogni qual volta siano disponibili. Il fine ultimo, ancora lontano, è eliminare del tutto la S.A.
Insomma ci parlano degli “orrori nascosti dei laboratori di vivisezione”, ma non c’è niente di orrendo né di nascosto: la ricerca in vivo è un’attività lecita e controllata, ogni struttura che la pratichi deve dotarsi di un medico veterinario responsabile del benessere animale, e deve essere controllata da veterinari pubblici delle ASL. Gli esperimenti devono essere autorizzati e se esiste un metodo che sostituisce in tutto e per tutto l’animale è obbligo di legge utilizzarlo. Infine, c’è un interesse da parte di tutti a superare i modelli animali, passo dopo passo, ogni qual volta la cosa sia praticabile. Sarà mai sufficiente quello che facciamo, o l’unico modo per far contente le associazioni animaliste è fermare la ricerca biomedica?


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