La libertà della coscienza

Interpretazione matematica del concetto di alterità in Jean-Paul Sartre

Entrare in una biblioteca colma di studenti, ciascuno pronto ad alzare lo sguardo dal proprio libro al minimo passo udito; avviarsi, così, alla ricerca mortificante di un posto (il più vicino), con gli occhi chini, fissi al pavimento, magari coprendo il viso con una mano o un gesto insignificante, che incalza in ‘soccorso’, per vestire goffamente la propria nudità di fronte allo sguardo altrui. O, semplicemente, volgersi con impazienza ai numeri lì in alto, aspettando, accanto a qualcuno in ascensore, che s’illumini finalmente quello indicante il proprio piano, non sapendo più ‘dove guardare’: insomma, sono visto.
La presenza dell’Altro ci è data in principio ed è certa poiché deriva da un rapporto fondamentale tra le nostre coscienze. Altri – questa la terminologia sartriana – è quel soggetto originariamente dato che, nella percezione del suo sguardo, rivela il mio poter essere semplicemente un oggetto (costituito e condizionato); è la realtà della mia alienazione, esemplificata dal sentimento della vergogna.

Sartre ritiene che la filosofia del XIX e del XX secolo abbia tentato – per sfuggire al solipsismo – di cogliere un legame fondamentale e trascendente con gli altri, che sarebbe costitutivo di ogni coscienza nel suo stesso sorgere. Tuttavia, questo sforzo incapperebbe, a suo avviso, nell’errore di considerare il legame fondamentale con gli altri come realizzato dalla conoscenza.
I capisaldi della fenomenologia sartriana trovano fondamento nel percorso già intrapreso in altri scritti filosofici, antecedenti al testo del 1943 L'Être et le néant (“L’essere e il nulla”). Com’è noto, Sartre studia Husserl, traendone il concetto di ‘intenzionalità della coscienza’, interpretato dal filosofo parigino come trascendenza ineliminabile della coscienza verso il mondo e le cose. Secondo tale assunto, la coscienza è sempre ‘coscienza-di-qualcosa’, ma non può essere sostanzializzata in principio metafisico separato.
Fin dal sottotitolo Sartre preannunzia quale sarà il suo modo di procedere, ponendosi al limite della contraddizione: Essai d’ontologie phénoménologique (“Saggio di ontologia fenomenologica”). Verrebbe infatti spontaneo domandarsi come possa essere affiancato un metodo fenomenologico a una ricerca di tipo ontologico – vale a dire come possa l’apparire parlare di essere – se non fosse per l’assunto da L'essere e il nulla secondo il quale «l'apparenza non nasconde l'essenza, la rivela: è l'essenza». Questa coestensività concettuale fa cadere del tutto la dicotomia interno/esterno, ma dà vita a una problematica transfenomenicità dell’essere, tesa, inevitabilmente, a indicare l’ulteriorità di un piano ontologico distante dalla fenomenicità. In realtà, la fenomenicità dell'essere – tale e possibile sol per la presenza di una coscienza soggettiva ‘osservatrice’ – rimanda necessariamente a una fondazione oggettiva e tutto ciò è quanto dire appunto ‘transfenomenicità’: la coscienza presenta costitutivamente un carattere di rimando, di tensione all’altro da sé.

È questa la dimensione concettuale in cui si afferma la distinzione tra in-sé e per-sé. Il primo concetto inerisce alla la realtà mondana estranea a ogni rapporto, l'in-sé è totalità piena che si oppone brutalmente alla coscienza. La coscienza, come essere-per-sé, è vuota e orientata all’in-sé. Rifiutando di identificarsi con l’oggettività verso cui è proteso, il per-sé le contrappone la propria assoluta libertà e responsabilità, la propria soggettività. Il nulla si presenta, quindi, come costitutivo di ogni relazione della coscienza con la realtà e con gli altri; la coscienza è sì proiezione di sé nel mondo (essere-nel-mondo), ma, in quanto immaginazione, è produzione d’irrealtà, è distacco dal mondo, è libertà, ma come nullificazione del mondo: attraverso la coscienza, il nulla è immesso nel mondo.
L’attitudine nullificatrice della coscienza fonda la sua libertà assoluta, poiché essa può sempre trascendere il suo essere-nel-mondo; da un lato le cose, dall’altro, la negazione delle cose: questo è l’essere e insieme il nulla entro cui circola l’esistenza. Il per-sé, allora, è visto come presenza all'essere, ma contemporaneamente come distanza, come un essere che, posto in relazione all'in-sé, esclude con quest’ultimo ogni possibilità di coincidenza.
Affermare la priorità dell’esistenza sull’essenza rinvia pertanto al farsi quotidiano di ogni singolo individuo, rifiutando con ciò qualsiasi concezione ontologica aprioristica che cerchi di imprigionare l'uomo, la cui natura lo disvela semplicemente come ciò che si fa.

L’esistenzialismo ateo sartriano evidenza, così, la contraddittorietà di pensare Dio come ‘essenza esistente’, irraggiungibile sintesi di per-sé e in-sé, assoluta libertà e insieme assoluta necessità: questo è lo scacco ontologico. Se esistesse un tale essere divino non ci sarebbe la libertà umana e si affermerebbe il primato dell’essenza sull’esistenza. Una teoria accettabile dell’esistenza d’altri dovrebbe quindi poter insieme «evitare il solipsismo e far a meno del ricorso a Dio se si considera la mia relazione originaria con altri come una negazione d’interiorità, cioè come una negazione che pone la distinzione originale di altri da me, determinando me per mezzo di altri e determinando altri per mezzo di me».
Il rapporto originario con l’altro sconvolge, modifica, colpisce intimamente, ragion per cui esistono delle reazioni riconducibili a due atteggiamenti fondamentali. Nel tentativo vano (che si tradurrà in sconfitta) di assimilare, unirsi all’altro, assorbire a sé la sua trascendenza, si dimostrerà che all’interno del rapporto fondamentale tra me e altri può esservi, intrinsecamente, solo approssimazione infinita e mai coincidenza.


Parte della serie Interpretazione matematica del concetto di alterità in Jean-Paul Sartre

Commenta