La La Land, in difesa di un film che non mi è piaciuto
Di whitewashing, mansplaining e altre critiche inutili mosse al film di Damien Chazelle
La La Land non mi è piaciuto. Malgrado il film di Chazelle viva momenti di sincera emozione e sequenze di grande impatto emotivo nella seconda metà, per la maggior parte del tempo si ha l’impressione di assistere a uno spettacolo senza sentimento, inutilmente esibizionistico (d’altronde è un musical, si ribatterà giustamente) e, in alcuni casi come la sequenza che ha dato vita all’iconica locandina, persino mal coreografato. E se gli impedimenti dei protagonisti – Emma Stone che canta con la lisca e Ryan Gosling in difficoltà col tip tap – possono far parte di un disincanto che è la cifra dell’intero film, diventa più complicato perdonare il fatto che, in un musical (che peraltro basa la sua struttura sul portato visivo e coreografico di altre opere dello stesso genere), le sequenze meno riuscite siano proprio quelle di musical. Eppure, nonostante tutto questo, è altrettanto difficile perdonare l’accanimento di certa critica a tutti costi che non solo non vuole vedere le qualità del film, ma che non trovando delle falle se le inventa, giocando slealmente su una mancata fedeltà al genere musicale di riferimento e sul terreno sottile delle differenze culturali.
Di cosa sto parlando? Ad esempio delle accuse in questo articolo del Post che riprendono diversi articoli usciti in Usa e Regno Unito su La La Land, che per primi bersagliano il film sulla posizione conservatrice che avrebbe nei confronti del jazz. Un riferimento è Seve Chambers, su Volture, che si lancia in una critica completamente fuori bersaglio scambiando le intenzioni del protagonista interpretato da Ryan Gosling, Sebastian, con quelle del film. L’articolo, non a caso, porta il titolo La La Land non sa niente di cosa stia realmente accadendo nel mondo del jazz. Perché, qualcuno glielo richiedeva? Qualcuno è andato a vedere La La Land aspettandosi un documentario sul jazz contemporaneo? E Chambers va oltre, continuando a confondere personaggio e film dicendo che «Quello che dovrebbe essere un omaggio al jazz finisce per dimostrare di avere una visione ristretta del genere». Con buona pace del regista del film, è il critico a stabilire ciò che il film dovrebbe essere. E se sono comprensibili le critiche all’approccio nostalgico al jazz, il film stesso è perfettamente coerente nel raccontare la sterilità di questa nostalgia (un po’ come faceva Woody Allen in Midnight in Paris) e ci scherza su: basti pensare allo sgabello di Hoagy Carmichael che Sebastian protegge ossessivamente nel corso del film e che mette all’ingresso del suo locale. Non solo, la posizione di Keith, l’amico di Sebastian interpretato da John Legend, mette in luce proprio le criticità di questo modo di pensare il genere.
Con buona pace del regista del film, adesso è il critico a stabilire ciò che il film "dovrebbe essere"
Il pezzo (non firmato) del Post si lancia poi in altre evoluzioni discutibili sul protagonista, che ha la grande colpa di non essere nero. «Il jazz è un genere nato tra gli afroamericani, suonato a lungo solo tra gli afroamericani, e fatto progredire quasi esclusivamente dagli afroamericani: tra i più grandi jazzisti di sempre, i bianchi sono una minoranza molto ristretta». E poi anche: «il personaggio di Gosling – convinto di essere l’unico a sapere cosa sia il “vero jazz” – a un certo punto spiega cosa dovrebbe suonare a un musicista nero, Keith». E quindi? Fatemi capire, quando un nero si fa strada nei rami della cultura bianca è emancipazione e riscatto e quando lo fa un bianco è (indebita) appropriazione culturale? Le accuse di whitewashing (la pratica dello showbusiness di far interpretare a un bianco un ruolo da nero) colpiscono indiscriminatamente tutto il film, in maniera peraltro infondata. «Nella scena finale Sebastian sale sul palco del suo locale, dove sta suonando un pianista nero: con paternalismo gli dice che è molto bravo, quasi più bravo di lui, ma se lo fosse davvero il locale sarebbe suo». Eh, no. Questo semplicemente non succede. Mi dispiace per l’autore dell’articolo, che magari è andato a vedersi il film in lingua originale e ha confuso le parole, ma l’unica cosa che Sebastian dice al pianista è di non migliorare troppo perché altrimenti rischia di rubargli il locale. Che è una cosa ben diversa, ma nella testa dell’autore va di pari passo con il fatto che «l’idea di un pianista bianco che vuole salvare il jazz riportandolo alla sua vecchia autenticità non sia realistica né rispettosa verso la storia del genere». Sembrano le critiche ridicole che abbiamo sentito qui in Italia qualche mese fa per la serie sui Medici: per quanto brutto un prodotto audiovisivo possa essere, non è la fedeltà alla storia che garantisce per la sua qualità.
E c’è ancora spazio per le critiche a un presunto mansplaining (l’atteggiamento paternalistico con cui un uomo spiega una cosa a una donna) che prende di mira il povero Sebastian, perché lui spiega a Mia la propria visione del jazz – è una colpa essere appassionati di qualcosa? – ed «è lui a portare Mia al cinema a vedere Gioventù bruciata, nonostante lei sia un’attrice e quindi dovrebbe conoscere il cinema meglio di lui» – adesso scopriamo anche che è illegale portare una persona a vedere un film che non ha visto e che allo stesso tempo per fare l’attrice bisogna sapere a memoria la storia del cinema. «È sempre Sebastian», continua l’autore, «a procurare a Mia l’audizione che le svolterà la carriera». Falso anche questo, dato che l’audizione se la conquista Mia grazie allo spettacolo che lei stessa ha scritto. E a questo punto ci si chiede se l’autore, troppo distratto a cannibalizzare gli articoli che cita, non si sia forse dimenticato di riguardare il film. A quanto pare, per supportare la propria tesi, è lecito persino cambiare il materiale criticato per renderlo più sgradevole e poter muovere accuse che altrimenti non stanno in piedi. Sono polemiche ridicole, come quelle che lo scorso anno, in senso opposto, hanno colpito gli Oscar perché secondo qualcuno non c’era un numero sufficiente di candidati di colore. E cosa vogliamo, le quote rosa? Le quote nere, le quote omosessuali, le quote ispaniche? È incredibile come non ci si renda conto che queste operazioni non tutelano le minoranze, ma contribuiscono a ghettizzarle di nuovo.
Cosa vogliamo, le quote rosa? Le quote nere, le quote omosessuali, le quote ispaniche? È incredibile come non ci si renda conto che queste operazioni non tutelano le minoranze, ma contribuiscono a ghettizzarle di nuovo
Moonlight è scritto e diretto da Barry Jenkins (come La La Land è scritto e diretto da Chazelle) e racconta una storia di neri. Nessuno si è sognato di mettere in discussione questa scelta, perché è giusto che l’autore di un film metta in scena il proprio protagonista così come lo immagina, e purtroppo per chi lo critica Damien Chazelle, figlio bianco di Providence, Rhode Island, si immagina il suo protagonista bianco. È forse un peccato originale? I protagonisti di Spike Lee sono neri, quelli di Scorsese bianchi e italoamericani, quelli di Woody Allen nevrotici, quelli di Ozpetek omosessuali e quelli di Kim Ki-duk, incredibile, coreani. La La Land non è un film razzista, né revisionista nei confronti della storia del jazz – Sebastian non si rifà a grandi jazzisti bianchi ma a Miles Davis e Thelonious Monk –, perciò l’unica colpa di Chazelle è di aver rappresentato un personaggio fedele a se stesso. D’altronde, come ha detto Mahershala Ali (nero e musulmano, visto che ci piacciono tanto le etichette) mentre ritirava l’Oscar per il miglior attore non protagonista in Moonlight: «It’s not about you. It’s about these characters. You’re in service to these stories». It’s all about the movie, aggiungerei. E tutto il resto lasciatelo a casa.
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