La guerra africana dei caschi blu

Il Congo, l'M23 e la missione delle Nazioni Unite

Lo scorso 12 novembre la Repubblica Democratica del Congo ha rifiutato di firmare un accordo con il gruppo ribelle M23, sconfitto grazie al supporto della missione MONUSCO delle Nazioni Unite. Nella provincia del Nord-Kivu, dopo una rivolta durata 20 mesi e dopo aver occupato per 10 giorni nel novembre 2012 il capoluogo Goma, le roccaforti dell'M23 sono state assaltate e conquistate mentre i leader del movimento si arrendevano o fuggivano nei paesi confinanti. Nonostante il celere negoziato grazie ai buoni uffici ugandesi, non si è arrivati ad un accordo per la cessazione delle ostilità tra il governo di Kinshasa e il gruppo ribelle. Secondo quanto dichiarato da Lambert Mende, il Ministro dell'Informazione congolese, il problema del mancato accordo non è stato il contenuto bensì il titolo del documento redatto grazie alla mediazione ugandese: «Dovrebbe essere una “dichiarazione” e non un “accordo” perché darebbe troppa credibilità al gruppo ribelle».

La riluttanza del governo congolese non deve stupire visto che il gruppo M23 è solo uno dei tanti gruppi ribelli che infestano la regione orientale del paese per le più svariate ragioni: controllo delle risorse minerarie da fornire alle multinazionali occidentali (coltan, oro, stagno, rame), enclavi di signori della guerra dediti al contrabbando, basi di appoggio per guerriglia nei paesi confinanti, nonché gruppi che cercano indipendenza dal governo centrale di Kinshasa. Le mappa pubblicate dalla BBC aiutano a chiarire il quadro della presenza dei gruppi ribelli in questa parte del Congo.
Dunque legittimare giuridicamente, anche in maniera indiretta, l'esistenza di uno di questi gruppi non farebbe che provocare un effetto a catena potenzialmente fatale per il già fragile governo centrale del Presidente Kabila. In effetti è stato spesso argomentato come la Repubblica Democratica del Congo sia sostanzialmente uno "stato fallito", un costrutto portato avanti solo dalla volontà delle grandi potenze, l'imbarazzo delle Nazioni Unite, e sostenuto grazie ad infusioni di riconoscimento diplomatico ed aiuti economici. Quando in realtà il governo fatica a mantenere il controllo sulla capitale e le città principali ed è totalmente assente nelle zone rurali, per non parlare dell'est controllato dai gruppi ribelli e influenzato dagli stati limitrofi, come il Rwanda e l'Uganda, i quali hanno sempre approfittato del vicino territorio congolese per tenere i gruppi ribelli fuori dai loro confini o semplicemente per rafforzare le loro aree di influenza e partecipare alla spartizione delle risorse.

Dal 1997 infatti, dalla fine del “regno” del dittatore Mobutu, non c'è stata alcuna autorità centrale in Congo in grado di controllare lo sterminato territorio (più di due terzi del continente europeo) e salvaguardare la sicurezza, per non parlare dello sviluppo, degli oltre 75 milioni di abitanti. A causa della dichiarata “kleptocrazia” del periodo Mobutu, dell'estraversione e dello sfruttamento neo-coloniale delle risorse e, soprattutto, degli ultimi 17 anni di sanguinosa instabilità, tra ribelli e conflitti maggiori, la situazione del paese è più che tragica: 229° su 229 per PIL pro capite, 186° nell'indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite e secondo, dietro la Somalia, nell'indice degli Stati Falliti. Al 2008 si calcola che siano decedute più di 5 milioni di persone mentre le violazioni dei diritti umani sono incalcolabili e parte del quotidiano, ad esempio tra il 2006 e il 2007 più di 400.000 donne sono state vittima di stupro.
Ma la notizia della sconfitta dell'M23 apre una speranza per le sorti della RDC, soprattutto in relazione al ruolo delle truppe delle Nazioni Unite presenti sul territorio. La presenza di caschi blu non è affatto insolita nel paese che l'ha sperimentata fin dalla crisi del 1961, in quella che è spesso indicata come la prima missione di peacekeeping della storia delle Nazioni Unite. Tuttavia l'attuale presenza sul territorio di truppe sudafricane, tanzaniane e del Mali della missione MONUSCO dal 2010 si è rivelata cruciale solo nell'ultima campagna contro i ribelli. Il mandato delle missioni di peacekeeping non permette di solito alle truppe di ingaggiare il nemico oltre l'autodifesa o la protezione dei civili e di determinate aree. I paesi partecipanti alle missioni sono sempre stati più interessati a limitare le perdite: i peacekeepers sono stati spesso più che meri spettatori, scarsamente armati e dunque impossibilitati ad ingaggiare l'aggressore. Non è un caso che un leader dell'M23 deridesse apertamente, in agosto, i caschi blu: «I tanzaniani sono i più duri, ma fai fuori cinque sudafricani e faranno tutti le valigie di corsa».

La vittoria dei congolesi sull'M23 sembra confermare la strada aperta dalle cosidette missioni di peacekeeping “robusto”, ossia missioni con una più ampia autorizzazione all'uso della forza. MONUSCO secondo il mandato della risoluzione 2098/2013 del Consiglio di Sicurezza è autorizzata alla formazione e l'utilizzo di una speciale brigata di 3.000 unità con l'obiettivo di “neutralizzare” i gruppi ribelli sul territorio congolese, tramite operazioni militari offensive. Una vera innovazione per la storia del peacekeeping, e a quanto sembra di grande efficacia: MONUSCO contava già 17.000 effettivi, ma è stata la forza di impatto della nuova brigata (artiglieria, elicotteri d'attacco Rooivalk e addirittura i droni italiani Falco della Selex) che ha rovesciato le sorti delle conflitto in favore dell'esercito congolese.
La vittoria contro l'M23 è anche una vittoria politica per il Congo e per le Nazioni Unite. Per Joseph Kabila e il suo fragile governo, una spendibile dimostrazione di controllo del territorio e di redenzione del corrotto esercito congolese, il quale non è affatto popolare tra la popolazione vittima degli abusi e delle razzie delle truppe. Per le Nazioni Unite una chiara dimostrazione che la comunità internazionale può di comune accordo, almeno dove ci sono interessi convergenti, intervenire con la forza militare per aiutare il governo di uno stato, rispettando il diritto umanitario e in difesa dei diritti umani della sua popolazione. Questa vittoria rinforza l'immagine dell'organizzazione, senza spettri neo-coloniali, e probabilmente spingerà altri gruppi ribelli nella regione a riconsiderare le vie negoziali. Soprattutto sarà un'ottima base per la giustificazione degli alti costi di queste missioni; solo MONUSCO costa all'ONU più di 1,5 miliardi di dollari l'anno.
Il problema, come sempre riguardo l'attuale struttura delle Nazioni Unite, è l'assoluta discrezionalità politica del Consiglio di Sicurezza nel creare e soprattutto nel dotare di adeguate autorizzazioni le missioni di peacekeeping. Le inappellabili decisioni delle grandi potenze con diritto di veto purtroppo non assicurano che questo tipo di risposta sia istituzionalizzato in un meccanismo rapido ad alta efficacia per la prevenzione di bagni di sangue e genocidi, e basta uno sguardo all'attuale panorama internazionale per capire che la cosiddetta "Responsabilità di Proteggere", tanto professata dagli ambienti militari, non è affatto un ideale in linea con gli obiettivi e gli scopi della Carta delle Nazioni Unite, quanto un'ottima scusa per mettere a frutto le ingenti spese militari nelle zone strategicamente significative, con un incidentale aiuto alla popolazione in difficoltà.

Senza andare in Siria, un triste esempio tra i tanti di double standards (noi diremmo due pesi e due misure) è la Repubblica Centrafricana, una ex-colonia francese confinante con il Congo che sta vivendo una guerra civile sanguinosa dopo il colpo militare dello scorso marzo. La popolazione, stretta tra le esecuzioni sommarie dei ribelli islamisti, il governo allo sbaraglio e le rappresaglie delle milizie cristiane, ha abbandonato i villaggi e vive da mesi letteralmente nella vegetazione, morendo di fame e di malaria; tra le tombe dei numerosi neonati un medico ha dichiarato: «Viviamo e moriamo qui come degli animali». Il rischio di genocidio religioso e intra-settario è sempre più concreto mentre dallo scorso marzo quasi nessun aiuto umanitario è giunto nella Repubblica Centrafricana.
Non sappiamo ancora se il successo di MONUSCO spingerà le Nazioni Unite ad intervenire con più efficacia nelle zone di crisi umanitaria. Sembra scontato ribadirlo ma la vera responsabilità di proteggere dovrebbe essere globale e senza considerazioni politiche, strategiche o di costo. Nel frattempo qualcosa si è mosso per la terrorizzata popolazione della Repubblica Centrafricana: una forza multinazionale dell'Unione Africana il cui compito, oltre a non provocare i ribelli islamisti, consiste principalmente in un florido spaccio di birra a Bossangoa.


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