La grande illusione

Riflessioni sulla Grande Guerra a cent'anni dall'attentato a Francesco Ferdinando

«Ho paura che né io né voi possiamo arrestare la marcia del tempo».
«Boëldieu, io non so chi vincerà questa guerra. La sua fine, qualunque essa sia, sarà la fine dei Boëldieu e dei Rauffenstein».
«Forse non ci sarà più bisogno di noi».
«E voi non trovate che sia un peccato?»
«Forse».

Al titolo di un commovente film di Jean Renoir, La grande illusion (1937), si pensa volentieri quando si vuole dar l’idea in breve di ciò che la Grande Guerra fu per il mondo che la visse. Cominciò come una favola bella: «Il respiro della battaglia aleggiava tutt’intorno, mettendo addosso a ognuno un brivido strano. Sapevamo noi allora che quel sordo brontolio dietro l’orizzonte, crescendo fino a diventare tuono ininterrotto, prima uno poi un altro, ci avrebbe inghiottiti quasi tutti? Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d’istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d’entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un’ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. “Non v’è al mondo morte più bella…” cantavamo». Così Ernst Jünger, grande “guerriero” e intellettuale tedesco, ci introduce Nelle tempeste d’acciaio (1920).

Ma presto la guerra avrebbe mostrato gli artigli e gettato via la sua maschera di bonomia: «un breve soggiorno al reggimento era stato sufficiente a guarirci del tutto dalle vecchie illusioni». Al posto della guerra muscolare e luminosa vagheggiata leggendo Tolstoj, fatta d’eroi presi tra nobili duelli e corse forsennate in campo aperto, i giovani istruiti trovarono la piattezza della terra di nessuno, la mortificazione delle trincee immobili, l’annientamento che causano le masse di uomini e macchine, l’anonima morte inflitta dalle mitragliatrici e dalle granate. Così milioni di altri, tratti da tutti gli strati sociali. La pioggia d’acciaio caduta su di loro cominciò come uno stillicidio, coi colpi esplosi – esattamente cent’anni fa – da Gavrilo Princip contro l’erede al trono di Francesco Giuseppe, l’antico Imperatore d’Austria-Ungheria morto nel 1916; ma divenne grandinata e, quando fu tempesta,  tirò giù quattro imperi e l’architettura del mondo che li aveva per pilastri. Francesco Giuseppe era salito al potere, diciottenne, nel 1848. Da allora l’Europa era molto cambiata: la Prussia di Bismarck, vittoriosa su Napoleone III, aveva fondato un Impero Tedesco presto pronto a sfidare l’egemonia globale della potenza britannica; erano proliferati gli stati-nazione e i movimenti che ad essi anelavano, ubbidienti al corso naturale della storia come i figli di Hegel lo avevano disegnato, mentre i diversi imperi europei si articolavano sulla faccia della terra contribuendo al mito d’una storia che, facendosi mondiale, diventava tutta quanta europea; sul continente, intanto, alla crescita vertiginosa dell’industria si accompagnavano straordinari stravolgimenti sociali e grandiose ideologie di palingenesi strutturavano le novità politiche da essi addotte; infine accelerava la corsa d’un progresso tecnologico che col vapore e l’elettricità sembrava poter avvicinare l’umanità, sicura di sé e del mondo. Sempre meglio, infatti, la scienza scopriva, penetrava e conquistava la natura grazie alla stessa forza prometeica – quella d’una ragione assetata di oggettività – che fin dalla «crise de conscience européenne» che ci investì sul finire del Seicento aveva contribuito a sventrare dall’interno la cornice biblica in cui l’europeo dipingeva il proprio quadro del mondo, delle genti e del tempo; ma sotto orizzonti ampliati per l’azione e il pensiero, malgrado guadagnassero terreno la relatività dei valori e la storicità delle culture, rimaneva implicita la possibilità che ogni universale rintracciabile nel mondo dovesse avere, per essere legittimo, la forma e la sostanza di un particolare tutto europeo. Forse non si trattava che di una versione secolarizzata dello sguardo cristiano sul mondo, sempre risoluto nell’affermare che extra Ecclesiam nulla salus. L’Europa, col suo occhio insieme freddo e curioso, aveva voluto analizzare tutto per classificarlo in un ordine nuovo, che le appartenesse e così le permettesse di proseguire lungo la strada del progresso. 

Se immaginassimo tutto ciò come una partita di scacchi, vedremmo ardite e nuove sequenze di gioco, ma sulla stessa e già nota scacchiera. La Grande Guerra fece saltare i pezzi con tutto il tavolo e, quando la scacchiera fu caduta con gran fracasso sul pavimento, nemmeno il reticolo – il rassicurante alternarsi di bianchi e di neri – era rimasto intatto. «Giustamente viene chiamata “guerra mondiale”, e non già perché l’ha fatta tutto il mondo ma perché tutti noi, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo». Così ne La cripta dei cappuccini (1938) Joseph Roth, che nacque a Leopoli – oggi Ucraina – come suddito di Francesco Giuseppe e morì libero e solo a Parigi. Fu un’intera gamma di mondi, allora, a rivelarsi fragile come un’illusione e, talora, scomparire: tra questi, quello delle «affinità orizzontali», come le ha chiamate Truffaut, che nel film di Renoir ancora uniscono, scavalcando le frontiere, l’aristocrazia francese dei Boëldieu e quella tedesca dei von Rauffenstein; quello della bella guerra eroica di cui Jünger accarezza i lembi sbrindellati; quello dell’internazionalismo socialista, smentito in molti paesi – tra cui la Germania della SPD – dal voto favorevole dei partiti socialisti ai crediti di guerra, dimostrazione che la prima fedeltà era quella tributata alla patria e ai suoi specifici interessi. Quello della scienza, che aveva dato i gas ai campi di battaglia; del progresso, che aveva permesso la valanga di ferro della guerra di materiali; della stabilità economica, vanificata dalla spaventosa inflazione. E al sogno incarnato dai grandi imperi continentali, di garantire almeno idealmente le condizioni politiche di una convivenza pacifica tra diverse etnie e confessioni, si sarebbe sostituita la realtà di una difficile famiglia di comunità immaginate, nazioni fatte Stati in virtù di un diritto, quello di ciascun popolo all’autodeterminazione, di cui avrebbero beneficiato soprattutto i più forti. Da uno di questi imperi sfasciati, quello russo degli zar, sarebbe sorta l’impresa bolscevica, che tanto peso ha avuto in ogni dominio della storia umana da lasciare  senza fiato. Nello scontro tra nazionalsocialismo e bolscevismo, tra il 1917 e il 1945, lo storico tedesco Ernst Nolte ha voluto vedere una «guerra civile europea»: espressione il cui chiaro valore interpretativo sembra ancor più degno di essere evidenziato oggi, quando il destino dell’Europa è ancora tutto da scrivere, a cent’anni da quell’apocalisse della nostra civiltà. Come suggeriva un libro allora molto famoso, calò il tramonto dell’occidente: gli imperi superstiti, quelli costruiti oltremare da Francia e Gran Bretagna, cominciavano a scricchiolare poiché l’Africa e l’Asia sottomesse potevano adesso dubitare che l’Europa disfatta dalla Grande Guerra fosse capace di una qualche missione civilisatrice. Non a torto si diffuse il sospetto, poi confermato dalla maggiore catastrofe che trent’anni dopo concluse quella guerra intestina, che il mondo sarebbe forse rimasto occidentale, ma avrebbe cessato di essere europeo: l’Europa avrebbe rimesso ad altri la sua funzione, fino ad allora gelosamente custodita, di motore politico e culturale dell’umanità.

Se questo è forse vero, nella misura in cui le due guerre (e la decolonizzazione che infine causarono) hanno ridotto la nostra vita di europei al racconto di una storia ridotta, alla manutenzione di una memoria di orrori che ci tengano a bada, vale la pena di gettare come un sasso nel lago l’estro di un sognatore ben attrezzato, un poco noto Guido Morselli che, in un Contro-passato prossimo (1973), immaginò un diverso finale per la Grande Guerra, con gli Imperi centrali che vincono e, sfaldandosi comunque, danno inizio “in anticipo” alla creazione di una prima comunità europea. Un’ucronia che sollecita a guardare le gueles cassées – le facce spaccate dei soldati – negli occhi, cioè a far sì che la storia non si riduca più soltanto ad un rito della memoria triste e vuoto, in cui servili e spaventati adoriamo come un idolo maligno, intoccabile e muto, ciò che non siamo più; ma che sia soprattutto l’occasione di esercitare senza timore la nostra libertà di pensiero e immaginazione, per rifondare la nostra identità su una relazione più dinamica con l’esperienza che – lo vogliamo o no – ci sovrasta, in vista di un mondo che appartenga a questa nostra generazione molto più che al passato da cui inevitabilmente proviene.


Commenta