La filosofia ovvero il mondo

Speculazione e pratica del quotidiano

Un celebre motto sentenzia laconico riguardo l’arida astrattezza della filosofia – quasi che il riso dell’ancella che dileggiò Talete riecheggi ancora dopo duemilacinquecento anni. Un riso che, nonostante tutto, negli ultimi tempi è parso cedere il passo innanzi a una vitalità tanto maggiore quanto inattesa, da parte di quelle attività speculative che si credevano relegate, ormai per sempre, al di fuori delle mura dell'oggi. Una cosa non da poco – si potrebbe pensare – per un mondo quale il nostro.
È vero: la cosa, di per sé, parrebbe promettere bene. Il male è che anche quel poco, come spesso accade, viene a cadere dalla parte sbagliata finendo per scomparire nella vasta marea di un più generale interessante, panìco per la quotidiana mezz’ora di sorpresa. Nascono così, improvvisamente, personaggî, opere, tempi e luoghi adatti a questa curiosa (e a tratti anche un po’ grossolana e spocchiosa) rivalutazione della filosofia.

                   A voler dare un giudizio in merito c’è da dire che quello che è certo è che nella sua dimensione di attività umana, la filosofia, non potrà scomparire che con l’uomo: li lega assieme un vincolo profondo e antico. Del resto il fatto che una disciplina così ricca di storia, espressioni e soluzioni non riesca ancora ad avere una propria definizione ci testimonia un’intrinseca misteriosità, una sorta di originaria, inestricabile indistinguibilità tra l’uomo e la sua disciplina; un po’ come accade con gli oggetti troppo vicini agli occhi dell’osservatore che, seppure siano immediatamente evidenti nella loro presenza, proprio per l’eccessiva vicinanza dileguano in una opaca e inspiegabile fantasia di colori.
Ma se la sua dignità ancor più che culturale, profondamente umana non sembra aver del tutto perso il suo smalto, ciò che oggi è palesemente in affanno è quella dimensione più prettamente sociale. La fisionomia lavorativo-professionale della filosofia si sta assottigliando e, senza dubbio in molte sue parti, è già del tutto scomparsa.
Del resto già a Kant non poteva rimanere nascosta quella tendenziale schizofrenia che aveva cominciato a serpeggiare nella pratica filosofica, e che avrebbe portato in breve a una sempre maggiore divaricazione tra l’ideale sapienziale che anima la disciplina e la dimensione pratica della saggezza, prerogativa del sapiente (il sophistes antico).
A oggi la schizofrenia sembra aver raggiunto il suo esito ultimo: se l’ideale ha avuto modo di raggiungere le sue maggiori ipertrofie, la coscienza pratica si è ripiegata in un silenzio sempre maggiore, sino al mutismo.

                Questa fine di una filosofia “antica” pervasa dal demone speculativo quanto da quello pratico – è forse un caso che il demone più famoso, quello socratico, spingesse proprio a fare o non fare qualcosa? – non ha avuto frutti altrettanto silenziosi. La tecnicizzazione della filosofia – già di per sé un’etichetta fin troppo “interessante” – , quando ne sia arrivata notizia, ha dato luogo un po’ ovunque a una qualche reazione; perché se la coscienza pratica ha finito per ritrovarsi muta, l’uomo non è divenuto sordo ai suoi richiami.
Ora, i principali tentativi di riapertura dell’antica dimensione etica effettuale si sono condensati in una serie di esperienze e di esperimenti che hanno tentato una reintroduzione forzata dell’elemento pratico nell’orizzonte sempre più puramente speculativo della disciplina filosofica. Frutti di questi ripetuti tentativi di innesto sono stati i vari e diversi monstra che spesso, più con la violenza della grammatica che con la forza del concetto, hanno cercato di riunire alla bene e meglio la pratica alla filosofia.
Perché oggi, è vero, sembra assodato che filosofia e quotidianità stiano l’una di fronte all’altra come cose totalmente distinte – né, dopotutto, lascia spazio a molti dubbî il fatto che l’adagio citato in inizio sia in buona compagnia. Ma che pertanto la filosofia, di per sé, non possa alcunché sulla quotidianità, ecco: questo ha fin troppi lati poco chiari.

                Pare sia stato Vico, in un suo scritto, a affermare che il compito della filosofia fosse non tanto dare risposte e risoluzioni ai problemi e alle ambasce degli uomini quanto porre domande anche e, forse, soprattutto al rischio di non riuscire a trovarvi risposte. E non credo ci sarebbe alcuna sorpresa se, al di là di tante discussioni e recriminazioni intorno all’Accademia, stesse qui gran parte della soluzione al problema.
Non si dimentichi, come invece spesso si è visto fare, che ancor prima che per l’uomo e per i suoi bisogni, la filosofia è nata dall’uomo e dai suoi bisogni; ancor prima che discorso dell’uomo per l’uomo, discorso di un uomo per sé stesso – e riguardo la profonda autonomia e autoreferenzialità della filosofia non si potrà mai leggere abbastanza quanto, con i suoi pro e i suoi contro, ha scritto Nietzsche in Al di là del Bene e del Male: «Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires [...] Conseguentemente io non credo che un «istinto di conoscenza» sia il padre della filosofia, ma che piuttosto un altro istinto, in questo come in alti casi, si sia servito della conoscenza (e della errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento». Ed è questo suo orizzonte originario che rende il discorso filosofico dell’uomo tanto più complesso quanto più profondo, tanto più insolubile quanto più strettamente legato alla quotidianità della vita.
In quanto radicata nella profonda dimensione umana di chi vive la problematicità della propria esistenza, la filosofia non può esimersi per necessità di cose dall’abitare nella quotidianità. Ma, altresì, proprio perché continuo discorso per se stessi, continuo scavo, continuo domandare, essa non può nemmeno restare nella sua quotidianità, laddove è nata e cresciuta. La filosofia, nata dalla quotidianità, per sua stessa natura è portata a evaderne, a eccedere la propria dimensione originaria proprio in virtù di quell’irrisolta radice del domandare (il problema, appunto) di cui si fa carico.
Ma ecco che, nonostante questo, come se ne è andata, adesso ritorna. Perché proprio nell’inesausto domandare e ricercare la filosofia stessa spinge alla risoluzione; una risoluzione di lega tanto migliore quanto più attiva. Più che un semplice protreptico essa agisce come profondo principio di significato in virtù del quale ciò che prima poteva apparire inspiegabilmente mostruoso e minaccioso adesso permette di ritrovare il proprio filo d’Arianna. Staccandosi dalla quotidianità per poi tornarvi, la filosofia non dà luogo a un mero riflesso del mondo bensì a una nuova proposta, al principio di una possibile trasformazione, di un modellamento nuovo del mondo vecchio.

                Immaginare una filosofia che lungi dal domandare e dal domandarsi dia risposte a chiunque a partire da mezzi dialettico-dimostrativi e da stralci di pensieri non darebbe vita che a una larva umana. Pensare che un qualcuno possa risolvere o addirittura esaurire la propria problematicità nella pura necessità quotidiana grazie a qualche inferenza, due sillogismi e un pugno di citazioni mirate ci consegna l’immagine di un uomo esausto nella quotidianità, più che rigenerato da questa. Racchiuso e sostanzialmente conchiuso in essa egli non troverebbe per sé altro mondo e altro agire che accondiscendere a qualsiasi impulso esterno; manipolarsi, deformarsi sotto la spinta del suo mondo riuscendo a non avvertirlo grazie al furbesco escamotage dialettico.
Un uomo tale, lungi dall’interrogare e dal costringersi a vedere, riuscirebbe finalmente a accecarsi e, divenuto cieco, a proclamarsi vedente; lungi dall’agire e dal cambiare ciò che gli sta attorno, riuscirebbe a farsi plasmare e manomettere dal suo mondo e, così prostrato, a dichiararsi signore delle proprie possibilità e, infine, di se stesso.


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