La fiera delle illusioni - Nightmare Alley di Guillermo del Toro

con Bradley Cooper, Cate Blanchett, Toni Collette, Willem Dafoe, Rooney Mara

A quattro anni di distanza da La forma dell’acqua che vinse, caso raro, sia il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia sia l’Oscar come miglior film, Guillermo Del Toro prosegue la sua personale rilettura del cinema hollywoodiano con La fiera delle illusioni - Nightmare Alley, primo suo film senza creature mostruose o soprannaturali, ispirato all’omonimo romanzo di William Lindsay Gresham che aveva dato vita già a un film nel 1947 con Tyrone Power protagonista.
In questo nuovo adattamento, è Bradley Cooper a interpretare Stan Carlisle, un uomo in fuga dal suo passato fosco che si rifugia in una fiera, un circo di serie C pieno di freaks e attrazioni cialtronesche nel quale il suo spirito di adattamento può brillare. Attraverso la relazione con Zeena (Toni Collette), il marito ubriacone (David Straitharn) e Molly, la ragazza elettrica (Rooney Mara) di cui s’innamora, Stan acquisisce le tecniche per diventare un mentalista perfetto e progettare un numero che possa dargli soldi e fama. Cose che raggiunge puntualmente, ma quando sulla sua strada incontra la psicoanalista Lilith (Cate Blanchett), che lo coinvolge in un gioco di raggiri più grande di lui, il suo castello di carte comincia a tremare.

Scritto assieme alla moglie Kim Morgan e prodotto con J. Miles Dale, La fiera delle illusioni - Nightmare Alley è per Del Toro più una versione del romanzo che un rifacimento del film del quale approfondisce le dinamiche del subconscio e mettendo soprattutto in campo una riflessione che potremmo definire meta-linguistica. Se il vecchio film diretto da Edmund Goulding era un puro noir, tanto per l’estetica in bianco e nero quanto per le dinamiche narrative (fato e destino, truffatori e dark ladies), questa nuova versione invece si sposa ovviamente con l’immaginario del regista messicano, si addentra nel confine tra mistero realistico e suggestioni fantastiche per raccontare gli esseri umani come bestie, per mostrarne la crudeltà indiscriminata o quasi, cosa che accadeva anche in altre sue opere, proprio a cominciare da La forma dell’acqua, ma che in questo caso è privo di appigli, di speranze, non c’è un “vero mostro” da cui apprendere l’umanità. Tranne Molly, i personaggi del film sono tutti mostri che cercano di approfittarsi gli uni degli altri: non è solo il denaro a muoverli, ma qualcosa di più profondo, il senso di potere che dà il dominio sull’altro, il controllo della mente attraverso le reazioni del corpo, partire dall’esterno e ferire nell’intimo, giocare con le reazioni involontarie, con i segni casuali e controllarli, poterli asservire.
 

Stan, un mostro che vuole soggiogare e dominare tutti, nasconde in fondo alla psiche le radici della sua mostruosità ma finisce dominato da mostri peggiori di lui


Non a caso, il filo conduttore del film, puntellato da radio o giornali, è l’ascesa di Hitler al potere, del grande incantatore di masse, che rese tutti mostri e al tempo stesso sfruttò le debolezze di chi ne era incantato. Questa biunivocità è il cuore di tutti i personaggi di Nightmare Alley e viene concentrata proprio nel protagonista, Stan, un mostro che vuole soggiogare e dominare tutti, che nasconde in fondo alla psiche le radici della sua mostruosità: nasconde qualcuno sotto il pavimento di una casa e appicca il fuoco, sembra godersi lo spettacolo, il montaggio – curato da Cam McLauchlin – mostra l’incendio al contrario, in reverse, a indicare che bisogna risalire alle radici del tempo per capire il presente, tanto che scopriremo chi ha ucciso e seppellito solo alla fine, quando il racconto andrà indietro nel tempo. L’uomo però finisce dominato da mostri peggiori di lui: non è semplicemente un percorso da parabola, ovvero la salita e la caduta di un anti-eroe, è che il racconto si costruisce proprio sul meccanismo del raggiro, della truffa, dell’inganno a mezzo parola o immagini in cui il secondo, quindi il cinema e il suo “imbroglio” a cui le attrazioni della fiera rimandano, è più ingenuo e accettabile del primo, perché le parole strisciano e volano e fanno più male di uno spettacolo.

In questo, c’è una sorta di rivendicazione di Del Toro della sua natura di narratore prima che di cineasta, della sua voglia di esplorare il potenziale del racconto in purezza, a prescindere dal mezzo con cui lo si declina, e forse anche per questo preferisce dedicarsi ad approfondire il romanzo di Gresham più del film di Goulding. Potremmo dire che La fiera delle illusioni - Nightmare Alley sta al cinema del regista come The Prestige sta a quello di Christopher Nolan, come una versione al negativo di Big Fish di Burton: il film di Nolan però si concentrava esplicitamente sulle immagini, sul cinema, mentre quello di Burton esplorava la meraviglia che un racconto può creare. Se però il principio è che le storie sono mondi da esplorare, chi le racconta è un demiurgo e di quel mondo e dei suoi abitanti può fare ciò che vuole, è questo il punto inquietante del film di Del Toro: l’utilizzo del racconto e dell’atto del narrare come grimaldello per scassinare le menti degli ascoltatori, lettori, spettatori. I rapporti che tutti i personaggi stabiliscono con Stan sono fatti di racconti, tutti coloro che avvicina per carpire informazioni, segreti, trucchi gli raccontano una storia che prima o dopo si ritorcerà contro di lui, lo stregano con l’affabulazione, fanno con il protagonista ciò che gli imbonitori fanno col pubblico della fiera, che restano con un’illusione, come dice il titolo italiano; Stan invece usa quell’illusione contro lo spettatore/ascoltatore/lettore, e diventa perciò l’incubo del titolo originale. Del Toro riflette quindi sulla natura truffaldina di ogni narrazione ma non dimentica la responsabilità del narratore, il suo film è profondamente morale come lo è ogni film cupo e cinico, in fin dei conti.

L’altro grande lavoro che Del Toro fa partendo da una materia simile è quello stilistico ed estetico, per dare al bianco e nero del noir – cinematografico o letterario – i colori che sono da sempre uno dei suoi marchi di fabbrica; il direttore della fotografia Dan Laustsen collabora col regista fin dal suo primo film statunitense, Mimic (1997), ed è evidente la sintonia tra i due, soprattutto nell’uso del colore principe dello stile del cineasta, il verde con le sue declinazioni. Qui però l’impianto visuale è più complesso e sofisticato rispetto ai fantasy o agli horror, alle fiabe nere che ha spesso raccontato, proprio perché il mondo mostruoso degli umani richiede sfumature e complessità: nettamente diviso in due, La fiera delle illusioni - Nightmare Alley ha una prima parte in cui emergono le fantasie di Del Toro, la sua passione per il macabro, il grottesco, le stanze delle meraviglie e i geek (a cui lui ha sempre fieramente aderito), una prima parte nera, oscura, giocata su toni ombrosi o crepuscolari, mentre la seconda è quella che richiama più direttamente il noir d’epoca, creando uno stacco nettissimo con le dimore di lusso dove il lavoro di Tamara Deverell alla scenografia emerge con un bagno di luce oro e platinata pronta a oscurarsi negli anfratti della mente umana, richiamati dai corridoi, dalle strettoie e dai passaggi segreti presenti ovunque e in cui la macchina da presa si muove di continuo.

Questo movimento impone anche una riflessione sul modo in cui la discontinuità che il film porta rispetto al resto dei film del regista, tematica e stilistica, faccia parte della riflessione sull’inganno, sulle piccole truffe dei narratori, sulla differenza tra ciò che vogliamo vedere e ciò che realmente ci viene mostrato: se La fiera delle illusioni sembra grondare di marche visive tipicamente “deltoresche” – il feto sotto formalina che in qualche modo apre e chiude il film, l’acqua che inonda luoghi e immagini – come di atmosfere riconducibili a vari suoi altri film, sembra lo faccia per nascondere la sua anima oscura, per sorprendere lo spettatore con un film nero e adulto, senza speranza né redenzione, come il finale che si interrompe su un ghigno disturbante e non contempla il semi-lieto fine imposto dalla Fox al film di un tempo.
 

La fiera delle illusioni è un tipo di film maturo e denso, che chiede al pubblico di pensare prima che di sentire, di lasciarsi ingannare senza ricompense


E infatti, le costruzioni visive dei precedenti film di Del Toro, pensate in verticale, in cui il rapporto tra alto e basso era un modo per comunicare il percorso dei personaggi verso una pace interiore, o verso il Bene, sono qui sostituite da uno sguardo ad altezza di scarafaggio, da movimenti di macchina quasi sempre orizzontali, in cui si resta intrappolati a terra senza la possibilità di staccarsi, proprio come Stan. In comune con il film di Goulding, questa nuova versione ha il fatto di essere stato un fiasco al botteghino americano, lì per colpa di un divo che cercava di sporcare la sua immagine venendo rifiutato dal pubblico, qui perché un tipo di film maturo e denso, che chiede al pubblico di pensare prima che di sentire, di lasciarsi ingannare senza ricompense – per questo è un film freddo e distaccato, che non può simpatizzare coi suoi personaggi e non può emozionare – ha poco spazio nel cinema di oggi. Forse, a ben guardare, non l’ha mai avuto, e proprio per questo risulta così interessante.
 

«Disegno ciò a cui penso»
USA 2021- Noir 150’ ★★★½


Commenta