La cuoca del presidente di Christian Vincent
con Catherine Frot, Jean d'Ormesson, Hippolyte Girardot, Arthur Dupont
Le riserve di una malinconica cuoca sui ricordi legati a un’esperienza extra-ordinaria sono le medesime di Danièle Delpeuch da cui è liberamente tratto – con parziale riferimento al libro Mes carnets de cuisine, du Périgord à l'Elysee – lo spettacolo cinematografico di Christian Vincent. È la stessa Delpeuch, infatti, ad aprirsi con misura perché contraria al mettere totalmente sullo schermo l’intimità del suo ricordo privato circa i due meravigliosi anni, vissuti al servizio del presidente Mitterand, con cui condivise, oltre che la passione per la magia della cucina, anche un tenero rapporto d’amicizia.
Imperniato su una struttura narrativa a flashback, e dopo l’enorme successo riscosso in Francia, La cuoca del presidente (Les Saveurs du Palais, il titolo originale) ci racconta di Hortense Laborie (Catherine Frot), cuoca particolarmente dotata, che sta per lasciare nuovamente il posto in cui lavora, questa volta sperduto in Antartide, all’orizzonte di un ennesimo viaggio. Sullo sfondo dei ricordi dei tempi appena passati, in cui si era trovata improvvisamente tirata fuori da una serena realtà campagnola, per ricoprire l’oneroso ruolo alla corte del Presidente della Repubblica Francese (Jean d'Ormesson), si sviluppa la trama principale.
Schiva ad aprirsi, come alle curiosità di una documentarista australiana che, alla cena d’addio, le chiede insistentemente della sua esperienza all’Eliseo, la donna persegue con raffinatezza e dignità il valore quasi etico dell’arte culinaria, che, in quanto tale, prescinde da qualsiasi contesto in cui ella si trovi a prestar servizio. È su queste basi che nasce e si nutre l’intesa con un uomo politico ormai stanco, che ricorda con nostalgia le ricette della nonna.
La distanza abissale tra i due protagonisti – registicamente resa alla perfezione nello spazio del loro primo incontro – così pian piano si colma, su un terreno confidenziale e più alla portata per entrambi, condiviso all’insegna della nobiltà dei sapori. “Ho bisogno di ritrovare il sapore delle cose, delle cose semplici: cose vere. […] Lei mi dia il meglio della Francia […] Personalmente sono le avversità che mi tengono ancora in vita, sono il ‘peperoncino’: lei mi capisce” – confessa il presidente.
Tale complicità crea un clima ostile, con vere e proprie dinamiche politiche, anche all’interno delle cucine presidenziali, in cui si genera un rapporto conflittuale e d’invidia nei confronti della donna (tenuto comunque a bada dalla sua tempra), che viene schernita con l’appellativo dispregiativo ‘Du Barry’ – con riferimento alla ‘preferita’ (l’amante) di Luigi XV.
Questi elementi condiscono una pellicola ironica e dichiaratamente leggera, che di certo non lascia il segno, probabilmente per le sue poche pretese.
Contribuisce positivamente l’interpretazione elegante della brava Frot (nomination ai Cesar), rinviando con tenerezza a sentimenti e legami intensi cui il film accenna, purtuttavia non indagandone mai il contenuto profondo, fermandosi sempre in superficie, oltre la quale tutto resta taciuto. Il garbo e la discrezione del racconto ci sono, ma lasciano il sapore amaro di un’occasione in parte persa, non sfruttata appieno nonostante gli spunti abbozzati (e solo intravisti) e le evidenti potenzialità narrative di una storia particolarmente originale.
La figura del presidente – interpretato, ricordiamolo, da uno scrittore e non da un attore – pur aprendosi a (deboli) letture simboliche, risulta eccessivamente caricata, soprattutto nell’adattamento italiano, e ci consegna un vecchietto rintronato che, se da un lato restituisce perfettamente, con occhi densi di meraviglia, la purezza dell’ingenuità infantile e nostalgica per l’amore per la cucina, dall’altro, è assolutamente tacciabile di scarsa credibilità.
Nei limiti di un film che non infrange mai la barriera del ‘carino’, la vera delizia rimane ascrivibile ai soli piatti che la macchina da presa – quasi con acquolina – via via assaggia e spia. Ma tra i ricordi, non c’è affatto un cinema che resta.
«Credo che potrei parlare per ore di cucina e finirei col chiedermi se non sarebbe molto meglio che occuparmi di politica»
FRA 2012 – Comm. 95’ **½
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