La cultura dello stupro
L'inarrestabile spirale di violenza in India
È dal dicembre 2012 che il dibattito sulla violenza sulle donne è esploso nell’opinione pubblica e nei movimenti sociali indiani in seguito al decesso di una 23enne violentata dai passeggeri e dall’autista dell’autobus nel quale stava viaggiando. Purtroppo nonostante un anno di campagne di sensibilizzazione e iniziative legislative, come l’introduzione della pena di morte per i casi più gravi, la violenza sulle donne è in costante aumento nel paese e con essa la paura. Gli episodi nella cronaca si susseguono con frequenza sconcertante e riguardano donne appartenenti alle classi sociali più umili ma anche fotoreporter in servizio e solitarie turiste straniere. Le violenze sono perpetrate anche tra le mura domestiche, come nel caso del marito che ha gettato acido su addome e genitali della moglie perché rifiutava di abortire. Il 2014 si è aperto poi con un episodio particolarmente sconcertante: il decesso di una 12enne stuprata da due gruppi diversi e poi arsa viva dai suoi aguzzini in seguito alla denuncia. La giovane, deceduta per le ustioni la notte di capodanno, era incinta di uno dei suoi violentatori. È del 5 febbraio invece la notizia di uno stupro ai danni di una bambina di appena 9 anni.
Questa spirale di violenza può apparire particolarmente sconcertante ma la condizione della donna che si promuove in occidente, e che in India in gran parte ha attecchito nelle grandi città, si scontra con usi, costumi e risposte sociali sostanzialmente incompatibili, parte integrante della cultura millenaria di questo paese: fondamentalmente nei confronti del perpetratore dello stupro non è attribuita una particolare stigma dalla comunità anzi al contrario è la vittima che diviene la paria quando si rivolge alle autorità per la denuncia o ai medici per le cure. Un’analista di Human Rights Watch ha scritto di come una vittima di uno stupro, ancora sanguinante, si sia sentita rivolgere queste parole appena entrata al pronto soccorso: «Sei lurida! Non sederti su quella sedia!». O ancora di come il “tentativo” di consolazione di un ufficiale di polizia sia stato «Perché piangi? Ti hanno solo stuprato». Le difficoltà per le donne indiane aumentano nel momento in cui sporgono denuncia: a causa di questo modo di pensare devono costantemente affrontare ritardi, inerzia e spesso veri e propri comportamenti degradanti o illeciti da parte di quegli stessi ufficiali che dovrebbero invece prodigarsi per aiutarle; la cronaca riporta inoltre numerosi casi nei quali conniventi o corrotti ufficiali di polizia spingevano la vittima a ritirare la denuncia.
Tutto questo è sintomo di una mentalità radicata nel paese che si riscontra a tutti i livelli, purtroppo anche istituzionali. Recentemente hanno suscitato grande sgomento negli osservatori occidentali le dichiarazioni di una parlamentare indiana, Asha Mirje, deputata del Nationalist Congress Party (NCP), la quale ha affermato che in più occasioni il vestiario o il comportamento delle vittime invita allo stupro: «Le donne devono essere accorte e valutare se stanno in qualche modo invitando gli assalitori», e ancora: «Gli stupri avvengono anche a causa dell’abbigliamento di una donna, del suo comportamento o della sua presenza in un posto inappropriato».
È tanto banale quanto necessario affermare che una forma mentis di questo tipo non è affatto adatta a spingere le donne verso l’emancipazione e l’uguaglianza, anzitutto quello che comporta è alimentare la paura. Non è un caso che, figlie di questa mentalità, le politiche che le autorità indiane stanno implementando per difendere le cittadine indiane prendono sempre più la forma della segregazione. Nell’India del 2014 la risposta più efficace per proteggere le donne in pubblico sembra essere rinchiuderle in ambienti riservati, come scompartimenti dei treni, porzioni degli autobus o taxi vietati agli uomini. Addirittura in arrivo nella municipalità di Nuova Delhi anche un parco pubblico riservato esclusivamente alle donne. Come questo possa sconfiggere la paura e cambiare i comportamenti sociali vessativi e minare la spirale di violenza resta del tutto ignoto. Sicuramente le viaggiatrici dei treni che ad ogni stazione sono osservate dagli uomini fuori dalle sbarre, come animali in gabbia, non devono essere pervase da un particolare senso di sicurezza.
Ma la condizione della donna in India sembra essere particolarmente più difficile nel contesto rurale dove la comunità e la struttura delle caste impongono severe regole di comportamento come un vero e proprio asservimento alla suocera o in alcune aree l’uso di un velo integrale per il volto, il ghunghat. Ancora più significativo è il fatto che le regole della comunità vengano fatte rispettare da piccoli concili dei villaggi, sorta di tribunali improvvisati e arbitrari che implementano usi e consuetudini in contrasto con le leggi ufficiali indiane. Un caso che ha avuto particolare eco è recentemente accaduto nel Bengala occidentale dove una giovane 20enne, rea di essersi innamorata di un giovane di un altro villaggio, è stata sottoposta ad uno stupro punitivo. La famiglia della giovane non ha potuto pagare la multa prevista per questi casi, circa 25.000 rupie (quasi 300 euro), e il capo villaggio ha condannato la giovane a subire uno stupro di gruppo al quale hanno partecipato 13 uomini. I perpetratori sono successivamente stati arrestati e al momento sono trattenuti in custodia.
Considerata la mentalità imperante sembra difficile spezzare questa spirale di violenza nei confronti delle donne, neanche l’introduzione della pena di morte per i casi più gravi ha fino ad ora scoraggiato sensibilmente i perpetratori. Anzi i dati sembrano mostrare che in effetti gli episodi denunciati sono in costante aumento e, cosa ancora più allarmante, che invece le condanne definitive per stupro sono una minoranza dei casi, nel 2012 erano state appena il 24,1%. Allo stesso tempo, come ha riportato il Fatto Quotidiano, nel 2013 a causa dell’introduzione della pena capitale gli assalitori sono diventati più violenti nel tentativo impedire alle vittime la possibilità di testimoniare. D’altronde considerata la dimensione culturale della violenza sulle donne in India, sembra difficile che un inasprimento delle sanzioni possa portare a risultati significativi, mentre potrebbe essere più opportuno tentare di ribaltare certi stereotipi culturali tramite campagne di sensibilizzazione, il più possibile nelle scuole primarie e nelle zone rurali, e tramite l'esempio di figure istituzionali di rilievo, specie se donne.
L’introduzione della pena di morte non fa altro che alimentare la violenza, in una esasperazione degli effetti distorsivi delle rapide trasformazioni sociali che l’India sta vivendo. La notte a Nuova Delhi, le migliaia di attiviste in corteo, con i volti rossi per la luce delle candele e gli slogan sulle bandane tremolanti nel chiaroscuro, non cantano affatto per fermare la violenza. In preda al dolore per le sorelle e le figlie, stuprate e uccise, tutto quello che riescono a scandire è: «Phansi do! Phansi do!», «Impiccateli! Impiccateli!».
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