La «creolizzazione» del mondo
Esperienze passate nell’incontro/scontro tra culture
Di fronte al grandioso e terribile spettacolo della globalizzazione si può provare un legittimo sentimento di timore. L’iperbolico sviluppo delle comunicazioni e la crescente integrazione economica che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale hanno trasformato specialmente l’Occidente, ma coinvolto significativamente tutto il pianeta, hanno fatto parlare con paura o stizza di americanizzazione della cultura, di «effetto Coca-Cola»; e all’«omogeneizzazione della cultura» che necessariamente deriverebbe dal processo di globalizzazione come un drammatico impoverimento della diversità culturale – che a livello globale è peraltro innegabile – individui e comunità hanno voluto opporre resistenza, contro le forme che la cultura globale innesta localmente o i sintomi dell’erosione delle frontiere cui oggi assistiamo come ad uno degli effetti della globalizzazione; è il caso dei massicci fenomeni migratori del Mediterraneo, che nel nostro Paese ha dato un importante contributo alla formazione dell’identità d’un movimento regionalista che è peraltro solo uno di quelli sorti in Europa in polemica con la forma dello stato-nazione, dalla penisola bretone alla Catalogna. L’elemento distintivo di questa posizione è proprio l’accento posto sulla cultura e sull’identità locali, la valorizzazione del luogo come spazio vitale entro cui esse si realizzano concretamente e simbolicamente.
La resistenza alla globalizzazione non è certo inutile, perché non potrà non avere effetti almeno su alcuni elementi della cultura o delle culture a venire, ma è destinata a fallire perché è in primo luogo fondata sull’utopica volontà di conservare il presente così com’è o peggio di far rivivere il passato, ovvero è ingenuamente diretta contro l’inarrestabile marcia della storia. Questo giudizio così tranchant è poi confortato dalla consapevolezza di una prospettiva storica: le forme di “globalizzazione” esperite in passato, da quelle mediterranee promosse dalle civiltà greca e romana, a quella atlantica data dalla vicenda imperiale spagnola fino alla più compiuta globalità degli imperi portoghese, olandese e britannico, indicano chiaramente la necessità dell’incontro nel breve, e di qualche forma di mescolanza culturale nel medio e nel lungo periodo. Forme di mescolanza che però non si risolvono mai a completo vantaggio della cultura “vincente”, quella capace di prendere il sopravvento e in qualche modo assorbire l’altra: così se l’ellenizzazione fu in prima istanza una riconfigurazione greca della lingua del ceto funzionariale dell’Impero achemenide, e quindi denota il dominio che in esso assunsero i nuovi elementi greco-macedoni, già Alessandro chiedeva ai propri sodali l’inginocchiamento ritualmente tributato allo shah, la proskynesis, e sollevava fatali resistenze; i missionari spagnoli imponevano la religione cristiana alle popolazioni vinte dai conquistadores, ma la manodopera cui affidavano la costruzione delle nuove chiese si serviva delle pietre dei vecchi templi e riproduceva nelle decorazioni motivi tradizionali; gli schiavi neri trascinati in Brasile nascondevano sotto le spoglie dei santi cattolici dei padroni portoghesi gli spiriti dei loro dèi africani; i britannici, durante l’età vittoriana, seppero ricompensare con l’incravattamento e una cultura di efficiente amministrazione pubblica i ceti vertice delle società indiane da loro dominate, ma quando fu necessario mettere mano al rinnovamento dell’immagine della monarchia incrinata dall’agitarsi delle masse socialiste fu alla tradizione moghul della grandiosa cerimonia del durbar che essi attinsero per costruire scientemente il rito dell’incoronazione imperiale di Vittoria e dei suoi successori.
Perciò gli interpreti meno ostili alla globalizzazione, partendo dall’affermazione della «reciprocità» dello scambio culturale, riconoscono la possibilità di una «negoziazione» grazie a cui gli attori delle culture “subordinate” saprebbero ottenere spazi di manovra autonomi rispetto alla cultura “dominante”, e questo in vario modo: operando una selezione di elementi affini da ricombinare in un amalgama capace, nel corso del tempo, di generare una nuova cultura (ciò che, prendendo spunto dai meccanismi per cui in Sudamerica lingua franche si sono complessificate affermandosi come nuove lingue, alcuni hanno chiamato «creolizzazione»); oppure per mezzo di forme anche tenui di «segregazione» culturale, strutturalmente simili a quella che il funzionario giapponese dell’era Meiji dispiegava smettendo l’abito occidentale a favore del kimono una volta tornato a casa dall’ufficio, e tenendo all’interno d’una casa costruita in perfetto stile tradizionale una stanza arredata all’europea: ancora prendendo esempio dalla linguistica, si pensa ad una «diglossia culturale» per cui si possa partecipare attivamente alla cultura globale e al tempo stesso, in determinate occasioni, comportarsi secondo le norme di una cultura locale, tradizionale. L’autorevole storico culturale Peter Burke, sul cui utile libro-guida Ibridismo, scambio, traduzione culturale. Riflessioni sulla globalizzazione in una prospettiva storica (2009) sono basate queste riflessioni, propende per «l’analisi della nostra cultura o culture passate presenti e future […] che riconosce l’arrivo di un nuovo ordine, […] la cristallizzazione di forme nuove, la riconfigurazione delle culture, la “creolizzazione del mondo”». Certo, come si è già detto, avvicinando fra di sé le culture e stimolandone gli attori all’incontro (o allo scontro) culturale un simile processo di sintesi riduce la diversità delle culture a livello globale, ma a livello individuale comporta «maggiore scelta, più libertà, un ampliarsi delle opzioni».
Questa considerazione non può che spingerci a riflettere sul ruolo che il singolo può ricoprire nello scambio culturale, ovvero quanto di un processo di «ibridazione» tra due culture può attribuirsi alla responsabilità dell’individuo, quale sia il suo grado di libertà nel selezionare e nell’appropriarsi gli elementi affini della cultura altra e quindi quanto questo procedimento risponda invece all’influenza che su di esso esercita il particolare contesto in cui si trova l’attore. Fare da interprete, tradurre un libro da una lingua all’altra sono operazioni deliberate, ma quando sono i protestanti italiani emigrati in Inghilterra a restituire Montaigne in inglese, o l’india Malinche a riportare in nahuatl le parole di Cortés, non può trascurarsi l’influsso, sull’azione umana, di forti condizionamenti oggettivi. Quello tra volontà, responsabilità individuale da una parte, e influenza del contesto dall’altra, nei processi di mescolamento inerenti all’incontro culturale, è un nodo assai difficile da sciogliere; ma non sembra possibile escludere a priori un elemento addirittura di calcolo in casi particolari in cui un individuo, calato in una situazione più o meno condizionante, sembra aver operato una scelta consapevole e solo in parte obbligata. È questo, in nuce, il tema trattato dalla serie di articoli che qui si vuole introdurre: gli individui presi in considerazione – un conquistador spagnolo che passa ai maya, un tipico «rinnegato» mediterraneo convertito dal cristianesimo all’Islam, un piccolo nobile giapponese fattosi gesuita e infine un ambasciatore britannico che sposa una principessa indiana e ne adotta usi e costumi – provengono da culture caratterizzate da diversi gradi di apertura all’alterità, ma tutte capaci di produrre, anziché ibridazione, ortodossia culturale e “identificazione”: accanto a Gonzalo Guerrero c’è il devoto Jeronimo de Aguilar, il corsaro Uccialì è tra i nemici giurati di Filippo II di Spagna, alla scelta cristiana di Giuliano Nakaura i Togukawa opporranno la chiusura del Giappone (sakoku) mentre a James Achilles Kirkpatrick solo l'improvvisa morte leverà la strigliata di sir Richard Wellesley, primo d’una lunga serie di governatori britannici dell’India fermamente ostili a che i propri concittadini si lasciassero tanto a fondo contaminare dalle tradizioni locali. La parte che essi scelsero si rivelò, nel lungo periodo, come la più debole delle due in gioco nei rispettivi, epocali incontri/scontri tra culture, tanto più che lo stesso Impero ottomano che diede a Gian Dionigi Galeni di farsi da povero pescatore calabrese ricchissimo kapudan avrebbe più tardi ceduto a (selezionate) influenze culturali dell’Occidente; ma sul momento la scelta di tradurre sé stessi in un’altra cultura, approdando a un’ibridazione che non corrispondeva né al luogo da cui si era partiti né a quello dove si intendeva arrivare, fu la condizione necessaria di un’ascesa sociale che fa di questi piccoli e poveri casi, certo non elevabili a norma generale spersi come sono nel mobile mare dell’interazione tra i popoli, altrettante occasioni di considerare positivamente la creolizzazione culturale di sé come un vero e proprio investimento.
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