La Congiura dei Pazzi
Banchieri di Dio
Raffaele Riario, giovane cardinale di Santa Romana Chiesa, alza l’ostia consacrata in alto sopra l’altare. La luce del sole penetra dalle grandi finestre tagliate dal Brunelleschi nel tamburo della sua cupola. Tutti sono inginocchiati. Un bagliore sinistro guizza davanti all’altare, un grido tremendo squarcia il silenzio: Giuliano de’ Medici è a terra in un lago di sangue. Voci spezzate, ferri che stridono, corpi che cadono morti, l’onda della folla che si ritrae nell’orrore; passi affannati, grida di panico ancora, una porta che si chiude tuonando: Lorenzo è salvo. È il 26 aprile 1478 e i Pazzi hanno fallito.
Francesco della Rovere sale al soglio pontificio nel 1471, col nome di Sisto IV. Interessato alla gloria della sua famiglia non meno che a quella della Chiesa, comincia ben presto a favorire in ogni modo i suoi innumerevoli nipoti. Ce n’è uno per cui il Santo Padre ha un’idea precisa: al figlio della sorella Bianca, Girolamo Riario, Sisto vuole donare una signoria. Questa volontà non nasce certo dal caso, né tantomeno dal vuoto capriccio; e non si parla di una signoria qualunque. Fin dal 1469 Lorenzo de’ Medici vela di un’ombra minacciosa le terre del papa tra Umbria e Romagna, mentre nel ’70 Galeazzo Maria Sforza, nuovo padrone di Milano, si è ripreso la città di Imola, a lungo contesa tra i potenti signori del Nord e l’amministrazione pontificia. Fu proprio su Imola che l’occasione e la necessità si intrecciarono in un nodo indissolubile: alle voci che nel 1473 volevano lo Sforza in procinto di cederla ai Medici, si rispose – e si convinse – che doveva averla il nipote del papa. Così da un lato il pontefice avrebbe tessuto l’amicizia con i grandi Sforza, e dall’altro avrebbe opposto un fermo baluardo alle mire medicee. Dal Nord corazzato dell’acciaio di Milano e dell’oro di Venezia, un pugnale affilato s’insinuava nelle parti scoperte dell’armatura, s’incuneava sull’Appennino insidioso e conteso, penetrava nel ventre molle di Roma: questo era Imola. Una lama fatale, sempre scoperta, sempre nuda, che doveva tornare al suo fodero.Per facilitare l’accordo con Milano convolano a nozze il Riario e Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo Maria. Ma non basta. Molto denaro vuole l’accordo per dirsi concluso ed effettivo; Girolamo dovrà pur andare a insediarsi a Imola armi e bagagli. Tanto è urgente che Imola finisca alla svelta nelle mani della Chiesa e dei suoi amici e parenti, che il papa deve contrarre un prestito per trovare il denaro di cui si trova in difetto. Opere pubbliche imponenti e continue campagne militari, quando contro il Turco quando contro i riottosi signorotti del Patrimonio di San Pietro, lasciano in difficili condizioni quelle finanze pontificie di cui proprio i Medici sono amministratori. È naturale che a loro si vada a chiedere quel denaro tanto sospirato, ma i disegni politici della Santa Sede non sfuggono all’occhio acuto di Lorenzo. Il Magnifico si rifiuta categoricamente versare il prestito, ben sapendo che non servirebbe che a insidiare il suo potere a Firenze e dintorni. Imola era troppo vicina perché la governasse un intrigante ambizioso qual era Girolamo Riario.
Un rifiuto tanto fermo getta il papa in uno sdegno traboccante contro questi Medici che pure curano le finanze pontificie. Ai piedi di chi ne è depositario, la Camera Apostolica chiama una ricchezza e un prestigio grandissimi. Oltre all’influenza sul portafoglio del vicario di Cristo, oltre agli enormi profitti delle commissioni sui movimenti di denaro, è annessa a Lorenzo l’esclusiva sulle miniere di allume dei Monti della Tolfa, vicino Civitavecchia. Per le sue proprietà di fissante, l’allume vale come l’oro in un’economia che vive di panni di pregio come quella fiorentina. Ma al Magnifico già Signore sta a cuore la libertà (la sicurezza) di Firenze più del lustro del suo banco e si nega, chiedendo a tutti gli altri banchi fiorentini di imitarlo. Quel prestito porterebbe il Riario a pendere su Firenze come una spada di Damocle. Tutti obbediscono, tranne uno: il banco dei Pazzi. Fiesolani e guelfi, vittoriosi a Gerusalemme e immolati a Montaperti, i Pazzi sono una delle tante famiglie rampanti di Firenze. Con la lana dei panni e l’oro dei fiorini hanno dato la scalata al potere cittadino, ma l’acme del successo è ora. Insofferenti a quello strapotere mediceo che del potere finanziario e di quello politico fa un’unica matassa che solo il fuso di Lorenzo può dipanare, i Pazzi colgono al volo l’occasione di dargli l’assalto, anche a costo di mettere in pericolo Firenze. Ecco che i ducati necessari compaiono nelle casse papali: Imola cade finalmente nelle mani del Riario. In cambio, Sisto IV passa ai Pazzi la gestione delle sue finanze, appena sottratta ai Medici. Lorenzo si rode per questo smacco insopportabile; ma il buonsenso dell’uomo e l’intelligenza del politico sanno attendere. La vendetta è un piatto che va servito freddo.
Sisto IV si è fatto un nemico formidabile. La spada del Magnifico è corta e smussata, ma la lingua affilata e lunghe le mani. Nel ’74, quando muore l’arcivescovo di Firenze Pietro Riario, fratello di Girolamo, i Medici fanno carte false per stornare la mitra da Francesco Salviati, affine al papa. Meglio Rinaldo Orsini, fratello di Clarice, moglie di Lorenzo. Il Salviati si consola con la cattedra di Pisa, ma non dimentica l’affronto: un’altra freccia all’arco puntato sui Medici. Crescono i nuovi rancori col papato; quelli vecchi con i Pazzi, sopiti dal matrimonio tra Guglielmo e Bianca de Medici, riavvampano presto. Il peggio accade nel ’77, quando il ricchissimo Giovanni Borromei muore lasciando il suo immenso patrimonio alla figlia Beatrice, sposa di Giovanni de’ Pazzi. Per evitare che le casse dei suoi nemici s’ingrassino, il Magnifico fa approvare una legge retroattiva sull’eredità. La transazione è bloccata: i banchieri del papa rimangono con un palmo di naso, furiosi per il danno e la beffa. Lorenzo ha passato il segno. I tempi sono maturi per togliere di mezzo lui e suo fratello, Giuliano. Nel 1478, tutto gioca contro i Medici. Sisto li vuole fuori da Firenze; Girolamo ne brama il potere; Salviati li detesta, Urbino li ha in sospetto, Siena brucia di terrore, Napoli d’invidia. Nessuno li difenderebbe. Troppo potere, troppa ricchezza per quei banchieri sfacciati che non hanno voluto servire la Chiesa, che anzi la combattono, irridendo i suoi fedeli ministri. Disegna la congiura Jacopo de’ Pazzi, già gonfaloniere di giustizia e figlio di quell’Andrea per cui Brunelleschi fece la Cappella in Santa Croce. Francesco suo nipote, tesoriere del papa, lo affianca nell’idea e nell’ira. Il pontefice procura che da Todi, da Perugia e da Città di Castello affluiscano soldati per liberare Firenze dopo il colpo di mano; ovviamente il grosso verrà da Imola. A Girolamo Riario, testa delle truppe, spetterà la signoria. Ottenuto il benestare di Ferrante d’Aragona re di Napoli e di Federico da Montefeltro duca d’Urbino, si cerca e si trova l’aiuto di Giovan Battista da Montesecco, assassino prezzolato. Sisto non esorta i Pazzi a uccidere i rivali, ma il desiderio di rivalsa è troppo perché non si indulga alla violenza. Si vuole tentare sabato 25 aprile, col veleno. Tutta la Firenze-bene si riunisce a Villa Medici a Fiesole per festeggiare l’elezione a cardinale di Raffaele Riario, ma Giuliano è a casa malato; si decide di compiere il misfatto la domenica, durante la Messa. Il Montesecco si tira indietro: davanti a Cristo non s’ammazza. Lo sostituiscono due preti poco usi al pugnale, Stefano da Bagnone e Andrea Maffei da Volterra. Guidano l’operazione le mani di Francesco de Pazzi e del sicario Bernardo Bandini.
È il 26 aprile 1478 e i Pazzi hanno fallito. Jacopo cavalca in Piazza della Signoria, dove l’aspetta il Salviati accorso a Firenze in mattinata; libertà! riecheggia nella piazza, ma i fiorentini non lo sentono. Sentono però le campane suonate a distesa, sanno dell’attentato: sono con Lorenzo. È la caccia all’uomo. Un grido rimbalza di strada in strada: palle, palle!, inno di rabbia all’araldica medicea. Francesco de Pazzi e il Salviati presto pendono dalle finestre di Palazzo Vecchio; Jacopo avverte le truppe che il piano è andato in malora e l’attacco non si fa, fugge nel Mugello, ma è braccato dalla gente comune. Bandini si nasconde a Costantinopoli, ma presto è riconosciuto, arrestato, trascinato a Firenze e impiccato ad una finestra del Bargello; Leonardo ne fa uno schizzo che ci è rimasto. Insultato dalla brutale fine del Salviati, al papa non restano che scomunica, interdetto e guerra. Il Magnifico, sostenuto dai fiorentini, vince con la diplomazia. Dopo due anni di scontri, trattative e variabili impreviste – i Turchi vittoriosi ad Otranto, per esempio – Lorenzo è ancora e più che mai l’indiscusso signore di Firenze, ago della bilancia della politica dell’equilibrio; tutte le fratture sono ricomposte, anche quelle con il papa. I Pazzi quasi tutti giustiziati o banditi. I beni confiscati, gli stemmi di famiglia abbattuti e cancellati dai fiorini del loro banco; espunti i loro nomi da ogni pezzo di carta che fosse a Firenze.
Nel bagno di sangue che si scatenò, alla scure del boia bastarono il sospetto, l’affinità o il cognome dei congiurati. I preti assoldati per l’assassinio furono linciati dalla folla, la testa del Montesecco decorò la porta del Bargello. Chi volesse far fruttare i suoi talenti, come i bravi servi della parabola, sapeva adesso che i rappresentanti di Dio non erano più clienti affidabili.
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