La buona scuola

Investire ne #labuonascuola per far tornare a crescere l’Italia

Coraggio, futuro, bellezza. Tre parole chiave che sono sostanzialmente sempre le stesse, dalle quali si sviluppa un discorso di poco più di tre minuti. Da vero primus inter pares, il premier Renzi parla chiaro, e annuncia in un videomessaggio l’avvio del progetto di riforma strutturale della scuola. Propone un patto, sottolinea che i politici (quelli di una volta) non farebbero certo come lui, e poi apre al dialogo con gli studenti, con i docenti, e con chiunque voglia esprimersi sul tema, sottraendo al Movimento cinque stelle la prerogativa della distorta democrazia orizzontale. Come nel suo stile, condensa ciò che da sempre si sente dire, ciò che pressoché tutti vogliono sentir dire, e che tuttavia mai si è riusciti ad attuare. Per limitare le accuse di inconsistenti annunci, viene diffuso un documento in più di cento pagine, che traccia la linea che il governo intende seguire per la scuola. Un percorso di riforma «radicale». È quello di cui il Paese ha bisogno, anche e soprattutto nel sistema dell’istruzione.
Ogni governo che si rispetti non può esimersi dall’annunciare qualche intervento sulla scuola. Lo hanno fatto il ministro Moratti, poi Fioroni, Gelmini, Profumo, e ci ha provato anche Carrozza. Tutti in poco più di una decina di anni. Qualcuno è persino riuscito a tradurre in pratica gli intenti. In questo modo sono state approvate riforme scolastiche disgraziate sotto l’egida della scure: tagli sciagurati alla spesa in base alla raffinata scienza del caso. Va da sé che minori investimenti hanno significato anche una limitazione notevole delle prospettive di evoluzione e di modernizzazione del sistema scolastico. Come se non bastasse, però, si sono enfaticamente introdotte le più grandi innovazioni tecnologiche quando ormai erano già anacronistiche, si è cercato di riparare alla cronica mancanza di personale con fantasiose soluzioni eternamente provvisorie e, dulcis in fundo, si è tentato miseramente di scopiazzare i modelli educativi di mezzo mondo, per stemperarli e annacquarli con l’incompetenza nostrana.

«Mettere i soldi sulla scuola è un investimento per il futuro». Il premier lo afferma senza esitazioni nel suo discorso di presentazione. Sa bene che tornare ad investire con criterio nell’istruzione significa credere nel Paese, oltre che dare un segnale di discontinuità a livello politico netto ed inequivocabile. Una scuola efficiente, che prepara adeguatamente le nuove generazioni ad affrontare il lavoro e una dimensione di vita sempre più vasta e internazionale, e che fornisce gli strumenti utili a forgiare il proprio spirito critico è la chiave del successo, la strada per il rilancio del made in Italy, come si legge nel documento di presentazione della riforma, con buona pace dei refrattari all’inglese.
Il punto di partenza della riforma è chiaro: la scuola funziona grazie agli insegnanti, e allora è necessario risolvere l’annosa questione del precariato. Porre fine a quella cronica agonia che ogni anno, a Settembre, si presenta con puntualità, e che pare quasi inspiegabile, di sicuro ingiustificabile. La risposta elaborata dal governo è senza precedenti: quasi centocinquantamila docenti da assumere tra un anno, per estinguere una volta per tutte le graduatorie ad esaurimento e riconoscere i risultati dei vincitori dell’ultimo concorso per l’abilitazione. Ma se l’intento di garantire la continuità didattica e di risolvere una situazione di perenne incertezza è nobile, lo è meno la modalità con cui si pensa di porre rimedio. L’assunzione indiscriminata di un cotale numero di insegnanti ha uno spiacevole retrogusto di sanatoria, condita con un bel po’ di assistenzialismo. Per questa ragione, prima di garantire un posto di lavoro ad un simile numero di aspiranti docenti, sarebbe assai auspicabile che anche quelli provenienti dalle graduatorie ad esaurimento venissero scelti tramite concorso. Quello che serve alla nostra scuola, infatti, non è solo l’introduzione del merito; è anche, e soprattutto, la selezione in entrata. Non basta sapere; bisogna sapere insegnare.

È lodevole che si cerchi di intervenire soprattutto sulla qualità dell’insegnamento. Fino ad oggi i docenti italiani sono stati immersi in un sistema inerziale. Dalle graduatorie, in cui c’era la prospettiva che prima o poi si sarebbe raggiunto il posto fisso senza grandi sforzi, all’assenza completa della possibilità di fare carriera una volta ottenuta una cattedra. L’unica ragione di gratificazione è l’anzianità, considerata ingiustamente sinonimo dell’esperienza. Un sistema profondamente iniquo, che premia indistintamente gli anziani e non valorizza i giovani. Per questo, i docenti non sono mai stati incentivati a fare di più, a fare di meglio. Si è lasciato troppo al libero arbitrio e alla coscienza di ciascuno. Con l’inevitabile rischio di adagiarsi, di minimizzare l’impegno. Con il rischio che chi si impegna, non sentendosi adeguatamente ricompensato, scada nella disaffezione. Allora l’introduzione del merito anche tra i docenti rappresenta un progresso importante. Tramite l’attribuzione di crediti didattici, formativi e professionali e grazie alla valutazione di un team indipendente si possono costituire parametri oggettivi di valutazione. Un’operazione di civiltà, prima ancora che di trasparenza. È più che giusto premiare chi si profonde con dedizione nel proprio lavoro, chi sceglie di tenersi al passo coi tempi aggiornandosi, chi si mette a disposizione per il bene della propria scuola. Certo è che introdurre il merito comporta la necessità di aumentare la trasparenza: ispezioni, rilevazioni e valutazioni dovranno costituire una prassi consolidata, a tutela degli insegnanti e degli studenti. Ma premiare i meritevoli non è abbastanza: bisogna che i presidi e le équipe di valutazione siano in grado di fare anche il contrario, ovvero di disincentivare condotte non conformi all’ambiente scolastico.

Ciò che è apprezzabile della proposta di riforma è l’orientamento globale che, seppur innegabilmente complesso da attuare per le ataviche resistenze che ostacolano ogni tentativo di cambiamento sostanzioso, consentirebbe di rendere davvero la scuola italiana al passo coi tempi. Il governo, infatti, si propone di valorizzare l’innovazione e la cultura. È fondamentale, infatti, dare più rilievo alla storia dell’arte come all’inglese e alle lingue straniere, alla musica come all’educazione fisica, al sapere e al savoir faire. La digitalizzazione, la riduzione della burocrazia, gli investimenti in edilizia scolastica, l’inclusione, l’alternanza tra scuola e lavoro: tutti temi che sono stati ampiamente dibattuti, platealmente sbandierati, ma mai resi una realtà concreta.
«La riforma proposta può dare risposte importanti», sostiene l’Ocse. Si tratta di un progetto innegabilmente ambizioso, che richiede un cambiamento di paradigma significativo. È a partire dalla scuola che si può garantire un futuro migliore per il Paese, valorizzandone il talento. L’intervento di riforma dell’istruzione non può che essere un disegno di crescita lungimirante, i cui frutti si possano cogliere nel lungo termine. E se la riforma del governo Renzi sembra andare in questa direzione, rimane un interrogativo. Le coperture restano l’incognita maggiore con cui fare i conti. Ma ne va del domani dell’Italia: in questo caso, occorre ammettere la flessibilità.


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