Io, crudele amante della carne e della scienza
Il carnismo, la ricerca e i casi di Elena Cattaneo e Caterina Simonsen
Carnismo. Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche è un libro del 2011 scritto dalla psicologa americana Melanie Joy. Non esiste ancora un’edizione italiana, ma su Facebook c’è una pagina a tema, dove si possono leggere inserzioni di questo tipo:
Le ideologie dominanti e violente come il carnismo si mantengono in vita utilizzando strategie specifiche, o sistemi di difese per nascondere le contraddizioni tra i nostri valori e il nostro comportamento, permettendoci di fare delle eccezioni a quello che normalmente considereremmo etico. La prima difesa di tale sistema è l’invisibilità e la maniera principale in cui restano in vita è rimanendo senza nome. Il principio è semplice: se non definiamo questo sistema attraverso un nome (“se non lo chiamiamo”), non lo vediamo e se non lo vediamo non lo possiamo definire. L’invisibilità protegge l’ideologia dallo scrutinio e quindi dall’essere contestato. E quando si ha a che fare con il carnismo, non solo l’ideologia è concettualmente invisibile, ma lo rimangono anche la vita e la morte degli animali dai quali questo sistema dipende.
Lo ammetto: sono anch’io esponente di questa ideologia dominante e violenta. Adoro la Fiorentina, il prosciutto, la faraona, il pesce, i frutti di mare. Ho anche partecipato all’uccisione di maiali e anatre: insomma, dovete avere paura di me. Sono un ‘carnista’, signori, ma voglio svelarvi altri dettagli raccapriccianti della mia personalità. Amo indossare le camicie: sono un ‘camicista’. Ingurgito ogni mattina un quintale di Pan di Stelle: sono un ‘pandistellista’. Adoro Martin Scorsese: sono uno ‘scorsesista’. E potrei continuare per ore seguendo il metodo inaugurato da Melanie Joy, secondo la quale un concetto si materializza nel momento stesso in cui lo si nomina. Altro che il cogito ergo sum di Cartesio: qua siamo al «dico, quindi esiste»; l’idealismo tedesco, in confronto, è roba da dilettanti. Forse la psicologa non lo sa, ma questo è esattamente uno dei principi della neolingua di 1984, il capolavoro di George Orwell: lo psicoreato è una realtà perché lo stabilisce il Partito. E l’Eurasia è in guerra con l’Estasia perché lo dice il Grande Fratello.
Sono cresciuto con alcune nozioni scientifiche molto precise: per esempio, che l’uomo è un animale come gli altri, solo con qualche neurone in più e un elemento definibile come ‘intelletto’, capace di sviluppare nuove forme di conoscenza ed elaborare idee, costruzioni filosofiche, opere d’arte. Sempre di animale si tratta, però, e dunque egli è inserito nella cosiddetta ‘catena alimentare’. Il leone divora la gazzella, la volpe si pappa le galline, il coccodrillo si spazzola quasi tutto ciò che gli capita a tiro, senza che nessuno crei blog o scriva libri per contestare questo comportamento violento: allo stesso modo, noi mangiamo altri animali. E talvolta, qualche simpatica bestiola si ciba di noi uomini.
Per me il discorso finisce qui, nel senso che non ho proprio nulla su cui dibattere: se vogliamo, prendiamocela con la natura. E invece no: è di gran moda, nell’Occidente dove sfamarsi non è più un problema, sparare a zero su chi ogni tanto si gode una costata di manzo. Ci definiscono «mangiatori di cadaveri», scordandosi che anche i vegetali sono esseri viventi che, una volta estirpati dalla terra, muoiono nel nostro piatto. Esseri viventi che soffrono, né più né meno degli animali, e che rispondono come loro agli stimoli esterni.
Facciamocene una ragione: la natura sarà anche nostra ‘madre’, ma non è affatto amorevole; semmai è indifferente, perché fa solo il proprio mestiere. Del resto, l’uomo che la abita è un accidente verso cui terremoti, tempeste, uragani ed eruzioni vulcaniche non hanno alcuna forma di riguardo, per non parlare delle altre specie viventi: le zanzare portatrici di malaria hanno falcidiato la popolazione umana nell’arco di tutta la sua storia e in alcune zone del mondo lo fanno ancora.
Per come la vedo io, le scelte alimentari rientrano nella stessa sfera di quelle religiose e politiche: sono personali e tali devono rimanere. Si può tentare di convincere l’altro delle proprie buone ragioni, ma la propaganda – legittima – non deve sfociare nell’insulto, cosa che invece dilaga nei dibattiti sull’argomento. Semmai, bisognerebbe instaurare una seria educazione al buon cibo, unica cosa destinata a entrare nel nostro corpo. La qualità media delle carni vendute, a mio parere, è pessima: basta osservarne colori, nervature, fibre muscolari. Quella schifezza, sono d’accordo, va boicottata, perché arriva da animali allevati in spazi angusti e alimentati con orridi intrugli. Le volte in cui sento la necessità di mangiare carne vado sempre da piccoli produttori, dove posso verificare cosa metto in piatto e come ha vissuto quel manzo, quell’oca o quel maiale: una questione di sapore, quindi di etica. Due concetti inscindibili, pure per un maledetto carnista come me. Che, fra l’altro, adora le verdure e ha grande curiosità nei confronti della cucina veg, necessariamente creativa.
Essere onnivori – perché questa è la sola definizione corretta – non c’entra nulla con amare o meno gli animali, così come sostenere la necessità di sperimentare i farmaci su topi di laboratorio. Ma oggi, in questa società sempre più illiberale, ribadire alcuni concetti elementari significa candidarsi all’ostracismo; si pensi alla scienziata e senatrice Elena Cattaneo, uno dei nomi più autorevoli della ricerca italiana nel mondo, che nel settembre 2013 si permise di contestare un convegno intitolato Fermiamo la vivisezione, promosso da vari rappresentanti del Parlamento:
Chi afferma che oggi esistano metodi alternativi in grado di sostituire completamente la sperimentazione animale nella ricerca biomedica dice il falso. E questo è particolarmente grave se a farlo sono persone delle istituzioni. Metodi che non comportino l’utilizzo di animali, come simulazioni al computer o test su cellule, sono in uso da anni e ci hanno sicuramente permesso di ridurre il numero di animali utilizzati. E grazie all’avanzamento tecnologico saremo sempre più in grado di ridurre questi numeri, come raccomanda anche l’Unione europea. Ma oggi, se vogliamo continuare a capire perché ci ammaliamo e come possiamo curarci non possiamo rinunciare del tutto alla sperimentazione animale: dobbiamo mettercelo in testa e pensarlo ogni volta che prendiamo un farmaco, che ci sottoponiamo a un intervento chirurgico e anche quando portiamo il nostro cane dal veterinario. È il buon senso, prima delle competenze tecniche, a dirci che una cellula singola non è un organismo intero, così come una simulazione non può ancora essere così sofisticata da prevedere tutte le possibili variabili con cui un organismo può reagire a un trattamento. Se si potesse davvero rinunciare alla sperimentazione animale tutti – dai ricercatori, alle istituzioni, alle case farmaceutiche – sarebbero disposti a farlo, per ragioni non solo etiche ma anche semplicemente economiche. Trovo intellettualmente disonesto verso i cittadini, in particolare verso tutti i malati, continuare a diffondere questi messaggi privi di fondamento, forti di campagne mediatiche fuorvianti, che stanno minacciando pesantemente il futuro della ricerca biomedica e quindi della nostra salute.
Apriti cielo: alla Cattaneo arrivarono critiche di ogni tipo, non di rado condite da offese, talvolta da minacce. Sostegno alla scienziata giunse comunque da più parti, compresa una venticinquenne di Padova, Caterina Simonsen, costretta a una vita attaccata al respiratore a causa di quattro rare malattie genetiche. La ragazza si fece fotografare con un foglietto sul quale era scritto un messaggio:
Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la vera sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un, seppur breve, futuro.
La reazione fu incredibile: dopo pochi minuti, cinquecento offese e svariati auguri di morte. Come questi:
- Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille. Io sperimenterei sulle persone come te.
- Sarò crudele: muori.
- Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei il mio pesce rosso per un’egoista come te.
- Io sperimenterei su malati terminali come questa troia. Noi che non siamo malati vogliamo che al posto degli animali la sperimentazione si faccia su malati come questa ragazza subumana.
Tre mesi fa, la Simonsen ha pubblicato un libro per raccontare la sua vita, le sue malattie, il suo impegno a favore della divulgazione sui temi della ricerca; i pasdaran, neanche a dirlo, si sono rimessi in moto:
Ma sei ancora in giro a rompere il cazzo tu e le tue ben 4 malattie rare! Eh sì perché una non bastava per far piagnucolare questo cazzo di Paese!
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare? Qualche volta no. Vi ricordate, nell’aprile 2013, l’incursione degli attivisti di Fermare Green Hill al Dipartimento di Farmacologia di Milano? Liberarono un centinaio di topi (che puntualmente morirono proprio perché nati per il laboratorio), bruciando un decennio di ricerca su autismo, Parkinson, Alzheimer, Sclerosi Multipla, Sclerosi Laterale Amiotrofica, sindrome di Prader-Willi e dipendenza da nicotina. Un colpo mortale, specie in un Paese dove i fondi per la ricerca sono ridotti al minimo.
In un Paese normale, questi criminali sarebbero alla sbarra: da noi no, perché nella patria del diritto c’è sempre qualche buon motivo per fare quello che cavolo ci pare. Si possono bloccare intere tratte ferroviarie per manifestazioni politiche senza subire alcuna conseguenza; si può incitare alla guerriglia in Val di Susa e unirsi ad essa perché si è famosi intellettuali; si può distruggere uno stadio e picchiare un tifoso avversario per poi uscire dalla galera dopo pochi giorni, giusto in tempo per la partita successiva. Ma questa è un’altra storia.
Voglio essere chiaro: se per voi un topo vale più di un malato, negatemi il saluto. Non parlatemi più. Fate finta di non conoscermi. Sparite dalla mia vista, dalle amicizie reali e da quelle virtuali di Facebook. Non sentirò la vostra mancanza, né voi sentirete la mia.
E buon 2015, privo di ipocrisie.
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