Insieme a te non ci sto più
Il tradimento coscienzioso e l'addio di Monti a Scelta civica
Anche nelle migliori famiglie, ad un certo punto, si consumano drammi insanabili. Dopo malcelati dissapori, frizioni modeste e meditati ripensamenti, si aprono crepe che diventano in breve tempo fratture profonde. Senza clamori eccessivi, senza nemmeno indugi, allora, è meglio dirsi addio. Un addio compiuto, questa volta. Senza ripensamenti, con la stessa compostezza di sempre. Ci sono soltanto un po’ di quell’astio e di quell’insofferenza a lungo repressi a colorare appena i discorsi, e a strapparli delicatamente alla calma apparente.
È un dramma che si consuma lontano dai riflettori, quello di Scelta civica. Mario Monti, nel giro di un giorno, rassegna le proprie dimissioni da Scelta civica, e annuncia di voler iscriversi al gruppo misto, a causa del documento firmato da undici senatori del suo schieramento, contrari alle riserve espresse dal loro leader circa la Legge di stabilità. Il partito che aveva contribuito a fondare si ritrova improvvisamente acefalo, con una guida ad interim, quella di Bombassei. Tutto sommato, però, il clamore è poco. Indubbiamente proporzionale al rilievo di Scelta civica e della coalizione Monti all’interno dell’esecutivo delle larghe intese. Un ruolo che, nonostante le previsioni, si è rivelato misero, quasi superfluo. Perché, in fondo, sostenere il governo si è rivelata una scelta obbligata, anche se in gran parte condivisa, quasi fosse un sincero imperativo morale segnare la continuità con l’operato responsabile e austero dei tecnici. La coalizione centrista guidata da Monti, dunque, ha scelto di percorrere una strada obbligata. E con il convincimento di non poter fare altrimenti ha segnato la propria condanna al declino, al soffocamento.
Il Partito democratico e il Popolo della libertà non hanno lasciato scampo al professore. La vecchia politica, sotto mentite spoglie, ha obliato l’integrità civica, nata troppo in fretta, data in pasto alla campagna elettorale sotto la protezione di un leader disprezzato nei bar ed elogiato nei salotti buoni dell’Europa, quando la memoria delle lacrime e del sangue era ancora troppo fresca. E quell’inequivocabile ruolo di secondo piano ha immediatamente fatto nascere dei malumori. “Scelta civica è morta il giorno dopo essere nata”, sostiene all’indomani delle dimissioni di Monti uno dei senatori, che vuole garantirsi l’anonimato. La coalizione della responsabilità e del rigore, forse, non è effettivamente mai esistita. Anche senza considerare la separazione consensuale dall’UDC di Casini, con cui si è trattato solo di un’effimera intesa elettorale, il progetto di Monti ha da sempre sofferto di quei piccoli particolarismi e indecisioni che lo hanno trattenuto dall’affermarsi più marcatamente. Un’incertezza a lungo evidente nel dubbio amletico che vedeva Monti oscillare tra l’ALDE e il PPE, poi risolta a vantaggio di quest’ultimo. Mentre le istanze dei cattolici, dei liberali e dei moderati si attenuavano in una pace apparente. L’obbiettivo era ambizioso: costituire un partito che unisse progetti riformisti, liberali e europeisti. Tutto ciò che l’Italia non ha mai avuto, e non avrà nemmeno questa volta.
Sono in undici, i traditori, come li ha definiti Monti. Più un imprecisato numero di altri sostenitori del governo, tra cui il ministro Mario Mauro. Ma adesso che il Professore ha ceduto, tutto può essere messo in discussione. Persino la collocazione del partito, che, come qualcuno auspica a mezza voce, potrebbe rivedere le proprie posizioni, spostandosi verso destra. Si è parlato forse di questo nel pranzo cui hanno partecipato Berlusconi, Alfano e Mauro. E che, come tutti i banchetti offerti dal Cavaliere, ha suscitato qualche polemica. Non tutti, ça va sans dire, sono d’accordo con quello che le voci prospettano, e auspicano ancora un ritorno agli ideali primari che avevano contraddistinto la salita in politica del bocconiano. Adesso, tuttavia, è solo una mera questione di numeri, nient’altro.
Non sono poi molte le differenze tra quanto sta accadendo in Scelta civica e quanto è in fieri nel Popolo della libertà, benché in scala proporzionale. La differenza è che qui Monti è uscito di scena, mentre il Cavaliere è tornato sui propri passi con nonchalance. Ma il contrasto tra le parti ha pressappoco gli stessi contorni, e pare proiettato verso gli stessi sviluppi.
È in corso una frammentazione estemporanea che riguarda indistintamente quasi ogni partito, da Scelta civica, appunto, al Movimento cinque stelle, dal Partito democratico, ormai notoriamente, al Popolo della libertà. Le fratture si aprono con tempismo impressionante, e minano gli equilibri interni, e sprigionano contrasti lampanti tra l’area filogovernativa e moderata e quella radicale. Si assiste ad un processo che ha le caratteristiche di un moto centripeto. Graduale, ma inesorabile. Una convergenza generale verso l’uniformità di posizioni, verso un centro in cui si disperdono gli estremismi e lasciano spazio alla concordia ordinum nella politica.
Così gli applausi sono apparentemente più omogenei, a seguito dell’approvazione della Legge di stabilità. Lodata perché pare non contenga aumenti consistenti della pressione fiscale, ma che addirittura risponda alle istanze presentate fino allo sfinimento dalle industrie e dai sindacati. Ma se poi si guarda con più attenzione, la risposta alle difficoltà sono tra gli otto e i quattordici Euro in più in busta paga al mese. Quattordici, al massimo. Ci vuole coraggio per chiamarla riduzione del cuneo fiscale. Ci vuole ingenuità per credere che questo riuscirà davvero a sostenere i timidi segnali di ripresa che si intravedono ormai da mesi ma che continuano sempre a restare un miraggio. Eppure, è forse il meglio che ci è concesso.
Ma se un governo di larghe intese serve a questo, a costituire un pretesto per rimandare il più possibile le elezioni e ridursi ad agire il minimo indispensabile, è davvero uno spettro tremendo quello che si mostra in lontananza. Un accentramento inclusivo e privo di slancio, dominato dalla mediazione e dalle intese di interesse, condurrebbe niente meno che all’immobilità, e farebbe sprecare altro tempo ad un Paese che ha bisogno di una svolta decisa. Non è più il momento di ricostruire il passato, né tantomeno di sfruttare il modus in rebus come scusa per rimanere inerti: sarebbe come arrendersi ad abbandonare la nave tra i flutti, senza una guida.
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