Inside David Lynch

Un viaggio nel cinema del regista statunitense con il critico Damiano Cantone

Dieci film, una serie tv e una smisurata passione per il caffè, a 71 anni David Lynch è considerato uno degli autori più influenti del panorama contemporaneo, ma cos’è che rende davvero unico il suo cinema? Nel giorno del suo 71esimo compleanno (lo stesso giorno di Federico Fellini) ne parliamo con Damiano Cantone, direttore della rivista Scenari e autore di Suspense! Il cinema delle possibilità insieme a Piero Tomaselli, dove indaga il ruolo della suspense nel cinema – da Hitchcock a Jarmusch – e in cui Lynch ha un ruolo fondamentale.

Nel vostro libro, di tutti i film di Lynch, dedicate un capitolo a parte ad Inland Empire. Come mai?
Inland Empire è un film abbastanza paradigmatico di quella che è la nuova forma della suspense, cioè la suspense lynchiana, che si distingue da quella classica che prende avvio da Hitchcock soprattutto per quello che è l’oggetto della suspense. Mentre in Hitchcock è in gioco l’idea del sapere – si gioca con la quantità del sapere per cui lo spettatore sa più dei personaggi del film e quindi sapendo quello che sta per succedere viene caricato emotivamente di attese, di aspettative, di proiezioni –, per Lynch la questione è quella del tempo: c’è una sospensione della scansione della linearità temporale. Si vede in quasi tutti i film di Lynch, ma emerge in maniera piuttosto forte in Strade perdute e Mulholland Drive, due film che io spesso associo fra di loro come tipo di costruzione, in cui è la linea narrativa stessa del film a venire sospesa, in senso quasi letterale: viene proprio “tirata su” e ribaltata. Le linee narrative di Inland Empire continuano ad intrecciarsi, a sommarsi, i personaggi stessi entrano ed escono dalle varie linee narrative diventando persone diverse: cambiano di nomi, cambiano di destini. E quindi non è semplicemente il sapere quello che viene messo in gioco, ma emerge l’idea stessa di più saperi che funzionano contemporaneamente in modo narrativo all’interno del film.

Parlavi di Strade perdute e Mulholland Drive, che sono forse i film in cui la combinazione tra il genere della detection e la sconnessione tra i diversi piani del reale tipica del cinema di Lynch opera in maniera più coerente, sei d’accordo?
Certo, prendiamo ad esempio Strade perdute. Quando il protagonista nella famosa sequenza incontra Mistery Man che gli dice di essere  a casa sua in quello stesso momento e quindi contemporaneamente presente alla festa e a casa sua comincia per lo spettatore un processo di detection più classico: "com'è possibile spiegare questo tipo di elemento?". L’originalità è data proprio dal rapporto tra le due linee narrative, quella del sassofonista che ha una relazione molto problematica con la moglie e quella del meccanico che viene sedotto dalla femme fatale, amante del boss locale. Quello che lo spettatore si chiede sempre è: qual è la storia vera? La risposta di Lynch è che sono entrambe vere. Non c’è un piano onirico e un piano reale, non c’è un piano interno e un piano esterno, non c’è un piano immaginario e uno vero. Queste due linee narrative sono assolutamente compossibili, sebbene non siano logicamente compossibili. Noi siamo abituati a guardare i film cercando una soluzione logica a quello che vediamo: la nostra abitudine ci fa proiettare una serie di soluzione possibili e partiamo dall’idea che la soluzione uno escluda tutte le altre. In Lynch non funziona così. In Lynch non soltanto sono tutte compossibili, ma sono tutte reali. Quello che si complica è proprio il piano ontologico della storia.

Quello che lo spettatore si chiede sempre è: qual è la storia vera? La risposta di Lynch è che sono entrambe vere

Parlando di sospensione e di Lynch mi viene in mente la sequenza di Velluto blu in cui il gangster viene ucciso nella camera d’albergo e invece di crollare a terra resta inspiegabilmente in piedi, al centro della stanza, con un meccanismo logicamente non comprensibile e che proprio per questo genera suspense
A me questa scena richiama un’altra scena di Lynch, in Mulholland Drive, in cui le protagoniste assistono al concerto di una cantante in un teatro con uno sfondo rosso. A un certo punto lei crolla a terra e la canzone continua ad andare avanti. Ed è un procedimento che Lynch utilizza abbastanza spesso giocando con le aspettative dello spettatore.
È un modo di mostrare che nel cinema il principio di non contraddizione non è necessariamente rispettato: il che non significa dire che ci sia una dimensione onirica nel cinema di Lynch. A me sembra molto di più una logica simile a quella dei multiversi, in cui ci sono molti universi possibili, dove nella scena di cui parlavi c’è sempre la possibilità che si verifichino due cose: il gangster muore, il gangster non muore. In questa logica narrativa, a differenza di quella di tipo classico, i due scenari non si escludono. Lynch non ha questo tipo di preoccupazione, non ha la preoccupazione di una verosimiglianza narrativa.

Quella sequenza di Mulholland Drive è un esempio abbastanza chiaro di come Lynch si disinteressi di qualunque tipo di verosimiglianza, e probabilmente è proprio questo disinteresse che regge la suspense del suo cinema
Nel cinema di Lynch certamente, proprio perché noi non sappiamo se potremo tornare sulla terraferma. Il problema grosso del cinema lynchiano, per lo spettatore, è proprio il ritorno a casa. Non c’è mai la spiegazione delle spiegazioni, sebbene i suoi film non siano assurdi, perché se noi li smontiamo le linee diegetiche sono tutte coerenti, stanno tutte in piedi. Quello che non sta in piedi è la loro compossibilità. Per questo l’ultimo capitolo del nostro libro si chiama “Verso una teoria esistenzialista della suspense”, questo dice Lynch. Ti mostro come questo tipo di piccola frana emotiva, cognitiva che ti faccio provare, è qualcosa che in realtà riguarda il modo in cui tu sei, il modo in cui tu ti relazioni con la realtà: non pensare che quella realtà che tu vedi fuori dal cinema sia tanto meno inquietante di quella che hai visto sullo schermo.

In Suspense! riflettete anche sulla storia della serialità televisiva, e marcate il punto di svolta con l’uscita di Twin Peaks. Quali elementi della serie credi che abbiano rivoluzionato il modo di fare televisione?
Secondo noi i motivi per cui Twin Peaks porta la serialità televisiva verso una nuova dimensione sono molteplici. La questione numero uno è quella della creazione di una storia di detection che sembra classica nella quale poi l’elemento di detection passa in secondo piano. Il fatto che non utilizzi quasi mai gli strumenti delle serie classiche: i cliffhanger alla fine della puntata, i colpi di scena che fanno svoltare la narrazione… ci sono un sacco di colpi di scena, ma poi questi colpi di scena sembrano andare nel nulla. L’altra idea pazzesca è la costruzione di personaggi assolutamente incredibili e inverosimili che però riescono ad entrare nell’identità, nell’identificazione dello spettatore, ad esempio la signora col ceppo: un palese assurdo (non sarebbe accettata in nessun tipo di serie televisiva mainstream), ma all’interno di quella serie diventa un personaggio chiave, importantissimo, e che viene immediatamente accettato dallo spettatore.

Twin Peaks è una serie quasi pedagogica, nei confronti dello spettatore. Pian piano sposta lo sguardo, le abitudini, l’idea di serie televisiva dello spettatore e lo costringe ad accettare uno sguardo differente

È una serie quasi pedagogica, nei confronti dello spettatore. Pian piano sposta lo sguardo, le abitudini, l’idea di serie televisiva dello spettatore e lo costringe ad accettare uno sguardo altro, uno sguardo differente, un funzionamento differente della serie. In Twin Peaks in ogni puntata i sensi e i significati che tu proietti esplodono, ogni volta che la storia va avanti ci sono sempre più elementi che esplodono ed elementi che tu pensavi di aver capito che vengono meno. E tuttavia funziona. Non è una sorta di teatro dell’assurdo con delle sequenze prive di significato: la cosa che rende Twin Peaks un capolavoro è proprio la sua coerenza interna. Nel momento in cui tu accetti, ti abbandoni a questo tipo di logica non hai la sensazione di star vedendo qualcosa che non ha significato, ma semplicemente qualcosa il cui significato non si è ancora rivelato, oppure ti è sfuggito, si è nascosto. Non è Buñuel che in Un chien andalou fa davvero questo tipo di provocazione: “non cercare un significato perché non c’è”. C’è invece l’idea che “guarda che quello che stai vedendo ha un significato, solo che se continui a guardarlo con i tuoi occhi vecchi non riuscirai a coglierlo, non riuscirai a venirne a capo. Non pensare che Kyle MacLachlan sia Sherlock Holmes”.

È curioso, alla luce di quello che dici, che la tagline che è rimasta nell’immaginario e che per tutti richiama Twin Peaks sia “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. Una frase chiave per una serie che alla fine si disinteressa dell’assassino e percorre strade completamente differenti, che tra l’altro l’hanno portata ad una terza stagione 25 anni dopo la messa in onda dell’ultimo episodio, in programma per maggio 2017. Secondo te cosa può dire ancora Twin Peaks, considerando anche l’assenza di Lynch dal cinema da più di dieci anni, tu che cosa ti aspetti?
Una domanda da un milione di dollari. Credo che avremo una riflessione piuttosto che una svolta, all’interno di questa stagione. Non mi aspetto una rivoluzione simile a quella dei primi due Twin Peaks, ma una riflessione intelligente su quello che è stato fatto. Ho seguito la vicenda della realizzazione di questa serie, sul fatto che inizialmente Lynch non avesse accettato, che non avesse minimamente voglia, e poi il fatto che ci abbia ripensato. Se ci ha ripensato è perché probabilmente ha qualcosa da dire, qualcosa da mostrare. Penso che in questa serie lui mostrerà di aver compreso quello che ha fatto; quando ha presentato Twin Peaks, ormai 25 anni fa, forse non era consapevole della rivoluzione che avrebbe portato in campo, adesso sì. Lynch non è più un regista di nicchia o sperimentale. Mi piace pensare che i registi siano come dei pensatori, ho un’idea del pensiero come non esclusivo di determinate discipline: il pensiero si esprime in molte forme – la filosofia, l’arte, la scienza – e Lynch lo considero uno dei grandi pensatori del nostro tempo. E i grandi pensatori vale sempre la pena di starli ad ascoltare, di qualunque cosa si stiano occupando.


Commenta