Innovarsi sempre, maturare mai
Sui Fratelli Michelangelo di Vanni Santoni
I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019) è un libro di cui si sta parlando molto, e c’è chi ne ha parlato come dell’opera della maturità di Vanni Santoni: affermazione senz’altro vera, ma solo in parte. Guardando alla sua produzione precedente, ci si rende conto di quanto lo scrittore toscano avesse già compiuto, sebbene con testi meno estesi, un notevole salto di qualità stilistico rispetto ai già promettenti esordi.
Pensiamo ad esempio a Muro di casse, dove la controcultura dei free-party viene raccontata attraverso un’ibridazione tra reportage e romanzo; oppure al successivo La stanza profonda: un omaggio ai giochi di ruolo, ma anche un’indagine sulla provincia e una intelligente commistione di forme narrative. L’impero del sogno è invece l’anello di congiunzione tra i suoi due mondi, quello fantasy della saga Terra ignota e quello realistico inaugurato con Personaggi precari e Gli interessi in comune.
I fratelli Michelangelo può essere allora visto come un ideale punto d’arrivo, ma anche come un nuovo inizio: al suo interno non vi sono tracce dei personaggi che fino a oggi abbiamo visto rimbalzare da un romanzo all’altro, fatta eccezione per degli sporadici rimandi che il lettore più affezionato può divertirsi a cogliere.
Tutto comincia con Antonio Michelangelo, figura assai stratificata, archetipo di un certo tipo di «uomo universale» novecentesco, uno di quelli che hanno avuto la possibilità di eccellere in molti campi dello scibile umano: prima assunto alla IBM, poi alla Olivetti e all’Eni; dopodiché, autore di un romanzo partigiano, Serpi di terrabassa, pur senza aver mai preso parte alla Resistenza, incisore quotato e anche regista di un film, La sultana, un filino troppo scollacciato per la sua epoca, in seguito divenuto un piccolo culto tra i cinefili.
Il ricordo può andare qui a quegli intellettuali e scrittori italiani del dopoguerra che prestarono il loro sapere a grandi aziende: per figure illuminate come Adriano Olivetti, ad esempio, lavorarono Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli (il poeta-ingegnere), Geno Pampaloni e Ottiero Ottieri.
L’eclettismo di Antonio Michelangelo e il suo spaziare da una disciplina all’altra sono ben inseriti nella nostra storia culturale, così come lo sono all’interno del romanzo. Non appena convocherà i suoi cinque figli a Villa Fortuna, in quel di Vallombrosa-Saltino, l’uomo diverrà il motore principale della narrazione, la miccia che farà esplodere i racconti dedicati alla sua prole. I fratelli occuperanno gran parte delle pagine del libro, eppure la figura del padre sarà costantemente presente: evocato a più riprese, Antonio si candida infatti a essere il vero protagonista della storia, pur rimanendo spesso assente, sullo sfondo; un po’ come il Dracula di Bram Stoker: non sempre partecipa alle scene, ma senza di lui non ci sarebbe alcun intreccio.
Antonio si candida a essere il vero protagonista della storia, pur rimanendo spesso assente, sullo sfondo; un po’ come il Dracula di Bram Stoker
Aurelia, Louis, Cristiana, Rudra ed Enrico nascono da quattro madri diverse, tra un paio di tentativi di famiglia tradizionale, avventure extraconiugali e relazioni travagliate. Chi tra di loro accetterà l’invito del padre – tutti esclusa Aurelia, la più grande, il cui personaggio è filtrato attraverso le testimonianze degli altri – avrà per sé una sostanziosa porzione di testo, un’occasione per fare i conti con la propria vita e con un padre ingombrante.
E così, se mi sono rifugiato una prima volta nei libri, e se poi ho fatto lettere, se sono insomma un bel po’ di quello che sono lo devo davvero ad Antonio Michelangelo, che ha innervato una libreria piccolo-borghese di materiali esplosivi, di autori capaci di parlarmi con parole potenti, capaci di lacerare la trama puerile della realtà… Buon dio, devo ad Antonio Michelangelo anche le mie prime seghe, quando andavo di nascosto a pescare Le undicimila verghe e ne traevo un oscuro, vergognoso trasporto…
Si parte con Enrico Romanelli, ventiseienne partito per Tel Aviv alla riscoperta di radici ebraiche che non gli appartengono, giacché il suo padre biologico non è il professor Paolo Romanelli, bensì Antonio Michelangelo. Il ragazzo lo scopre non appena la madre gli telefona per comunicargli l’arrivo della lettera del vero padre, dal quale desidera andare. Enrico dovrà pian piano rivedere la sua vita, le scelte e le passioni, sulle quali Antonio ha avuto più di un’influenza.
È poi la volta di Louis, improbabile imprenditore protagonista di un racconto picaresco ambientato tra Bali e l’India, coinvolto in un losco giro d’affari più grande di lui. Ne pagherà le spese l’amico e socio Carletto, finito in un carcere indonesiano dal regime detentivo non proprio liberale. Louis riparte per l’Italia con questo e altri pesi sulla coscienza, con l’idea che il celeberrimo padre gli abbia riservato una succosa eredità dopo aver trascurato per anni lui e la madre Francesca Lavier.
La storia di Cristiana è invece quella di chi vorrebbe sfondare nell’arte contemporanea, una sorta di disilluso bignami per l’aspirante artista. Dopo una serie di rinunce e fallimenti universitari, ritrovatasi per caso a frequentare da non iscritta l’Accademia delle Belle Arti, Cristiana farà tesoro dei geni paterni e di tutte le sue passate incursioni artistiche, dalle acqueforti fino agli sticker e alle mappe per i giochi di ruolo; si sposterà tra Londra, Berlino e Parigi, e deciderà di rispondere alla chiamata del babbo, portando con sé un’idea: filmare per intero l’incontro con lui e con gli altri fratelli Michelangelo.
Infine c’è Rudra, la cui vicenda è narrata sin dal concepimento. Si tratta di un ragazzo a suo modo fuori dal comune, promettente nelle arti marziali e precoce nel bruciare traguardi duri per i più, come dichiararsi omosessuale ai genitori a quattordici anni e andare a vivere da solo a diciassette. Il suo futuro, da biologo mancato, sarà quello di maestro d’asilo in Svezia col marito Matts, assieme al quale intraprenderà il viaggio a Vallombrosa.
Ma cosa vorrà da loro Antonio Michelangelo? Sta per morire? Vuole lasciar loro dei soldi o scusarsi per i suoi peccati di padre? Sono queste e altre le domande che il lettore si pone per tutte le seicento pagine, grossomodo le stesse domande che girano per le teste dei fratelli, e lungo le quali si dipanano le molteplici storie di un romanzo costruito su un sapiente gioco di punti di vista e focalizzazioni.
Se nella cornice dedicata ad Antonio Michelangelo e a Vallombrosa il narratore è onnisciente, Enrico, Cristiana e Louis parlano in prima persona, mentre Rudra è raccontato alla seconda singolare: un espediente che Santoni aveva già usato nella Stanza profonda, qui riproposto con efficacia in una delle zone più riuscite del testo.
Anche Il libro tibetano dei morti dà del tu a chi legge, e non è un caso che nei Fratelli Michelangelo sia una peculiarità del capitolo di Rudra, il personaggio più enigmatico del romanzo: quello che più di altri, sin dal suo nome, sintetizza in sé i richiami metafisici e spirituali. Del resto, Antonio Michelangelo custodisce e rilegge l’Ecclesiaste e la Bhagavadgītā lasciategli dal fratello Abramo (nome piuttosto “parlante”, così come in effetti lo è anche quello di Cristiana), ed è determinante in lui il lato mistico-religioso, la crescente irrequietezza, la necessità di cambiare: cambiare mestiere, cambiare l’arte da praticare, cambiare donna, tentare il passaggio dal materialismo alla trascendenza.
In Antonio Michelangelo è determinante il lato mistico-religioso, la necessità di cambiare: cambiare mestiere, cambiare l’arte da praticare, cambiare donna, tentare il passaggio dal materialismo alla trascendenza
A loro modo, tutte inquietudini che ricadono sui figli, ancora alla ricerca di un loro posto nel mondo, in un 2007 in cui lo spettro della crisi economica ancora non si aggira per l’Europa e per il mondo, dove i social sono il futuro (si parla, ad esempio, del glorioso MySpace) e non l’attualità.
Enrico vede sfumare subito le sue velleità letterarie; non ci prova nemmeno, e sembra provare quasi invidia davanti ai due amici scrittori seduti al tavolo di una libreria-caffè romana a comporre i loro testi: si rifugia nell’insegnamento, come a voler allontanare le più elevate aspirazioni. I libri finiti in casa della madre tramite Antonio Michelangelo, dai quali provengono gran parte delle citazioni presenti nel romanzo, saranno capaci di fagli cambiare idea? E riuscirà Cristiana a realizzarsi come artista contemporanea, dentro un microcosmo blindato dove già Parigi è considerata una città di second’ordine, nel quale innovazioni e talenti convivono con la fuffa? Louis invece deve barcamenarsi per trovare un business a lui congeniale, ma soprattutto dovrà far pace coi propri demoni, nonché tentare di tirar fuori dalla galera l’amico Carletto. Rudra resta una figura risolta e irrisolta al tempo stesso: non si comprendono fino in fondo le sue mire; e sebbene lui prediliga una vita tranquilla e un lavoro semplice, distante dagli studi a cui ha rinunciato, una luce rimane accesa su di lui, e pare sempre sul punto di volerci dire qualcosa di più: ma cosa?
I fratelli Michelangelo può dirsi una personale interpretazione dell’autore della saga famigliare; una vocazione espressa sin dal titolo e dall’albero genealogico posto alle prime pagine, lontana però dall’idea che ne abbiamo avuta finora: un romanzo cosmopolita, non imparentato col realismo del Franzen menzionato in bandella, con marcate influenze dei testi sacri e della filosofia orientale.
La prosa e le tecniche narrative usate hanno i loro debiti col modernismo (Woolf, Joyce, Faulkner, Proust, ma anche Mann), e Santoni non rinuncia alla sua ottima capacità di mimesi nei dialoghi, ormai sempre rigorosamente non mediati dalla punteggiatura, a un lessico denso e a una scrittura corposa ma scorrevole anche per il lettore più pigro.
Vieni posizionato tra poteri definiti: c’è la mamma, c’è il babbo e c’è Cristiana.
A tre anni, sfiorando l’aureo debole di una maniglia d’ottone della casa di via Benedetto Varchi dici: Ho tre anni.
Cristiana sa tutto.
Non sa niente, ti dici, quando hai tre anni e mezzo e lei sette e ti spinge in una pozza invece di rispondere a quello che le chiedi, ovvero: Esiste Gesù?
Lo chiedi al babbo, la risposta è Se non esistesse, a maggior ragione sarebbe opportuno dargli retta.
Non ti è chiaro cosa intenda, allora lo chiedi alla mamma, se esiste: Certo che no, dice, alzando gli occhi solo un attimo dal suo libro.
Il libro si immette anche nel post-secolare contesto europeo dove lo sconfinamento nel metafisico, nel fantastico-allucinato sta perlopiù facendo da padrone (pensiamo a nomi quali Mircea Cărtărescu, Georgi Gospodinov, Antoine Volodine, Tom McCarthy e altri), e lo fa in modo eclettico, inframezzando il narrato con le suddette suggestioni, con inserti saggistico-scientifici e divagazioni oniriche. Il tutto è supportato da un ritmo notevole e da un finale non banale, all’altezza delle aspettative di una storia intrigante e colma di motivi d’interesse.
Chiuso il volume, avremo quanto meno la certezza di essere di fronte a un nuovo universo finzionale santoniano: non possiamo sapere se ritroveremo altrove i suoi protagonisti, se il loro percorso si fermerà qui o se, come il loro autore, proseguiranno nel loro percorso di rinnovamento e maturazione. Il pensiero va dunque agli anni a venire, ai quali guardiamo con curiosità, chiedendoci quali altre storie – e quanta letteratura – Vanni Santoni avrà in serbo per noi.
In copertina l'installazione neon "Sky's the Limit" (1987) dell'artista canadese Michael Hayden
Chicago O'Hare International Airport
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