Indivisibili di Edoardo De Angelis

con Angela e Marianna Fontana, Massimiliano Rossi, Antonia Truppo

In coda alla biglietteria del multisala, in un pomeriggio grigio d’inizio autunno, aspetto il mio turno con la pazienza di chi è arrivato al cinema a cinque minuti dai titoli di testa e prega, per una volta, che le pubblicità pre-proiezione si prendano il loro canonico quarto d’ora. Di fronte a me ci sono due ragazze: entrambe portano scarpe Converse nere, pantaloni neri, camicia a quadri nera e rossa, zaino Eastpak nero, entrambe capelli lunghi e lisci tagliati uguali. Sono identiche, una di fianco all’altra, sembrano gemelle. Solo quando si voltano, e si avviano verso l’ingresso delle sale, capisco che si tratta di due amiche dai gusti poco originali e non di un grande scherzo del destino. Faccio un passo verso la cassa e stacco il mio biglietto per Indivisibili, opera terza del regista campano Edoardo De Angelis, che racconta la storia di due gemelle siamesi.
Daisy (A. Fontana) e Viola (M. Fontana), giovanissime cantanti neomelodiche, si esibiscono a Castelvolturno e dintorni in battesimi e matrimoni inconsapevoli del mondo al di fuori di casa propria. Le gemelle, alla soglia dei diciotto anni, vivono succubi di una famiglia che si è costruita un business intorno alle loro doti canore – il padre Peppe (M. Rossi) autore dei testi e loro agente, Nunzio (T. Laudadio) truccatore, la madre Titti (A. Truppo) e lo zio Nando (M.M. De Notaris) al loro seguito – e che specula sulla natura particolare delle due sorelle, trattate come fenomeni da baraccone e vendute al pubblico per il canto e per le presunte doti taumaturgiche. La particolarità di Daisy e Viola e il motivo del loro successo, come recitano la fiancata del furgoncino su cui si spostano e il titolo della canzone che è il loro cavallo di battaglia, è di essere Indivisibili, ma un giorno, dall’incontro fortuito con un chirurgo che si offre di visitarle, scoprono di potersi dividere.
 

Il cinema è sempre stato affascinato dalla gemellarità: escamotage narrativo – Lo specchio scuro di Robert Siodmak, The Prestige di Christopher Nolan – e materia d'indagine scientifica e psicologica – Lo zoo di Venere di Peter Greenaway, Inseparabili di David Cronenberg


La gemellarità ha affascinato il cinema da sempre, per la sua natura particolare e per le riflessioni sulla definizione dell’identità che fa scaturire. Se da una parte molti autori hanno voluto utilizzare il tema del doppio come semplice (per quanto d’impatto) escamotage narrativo – da Lo specchio scuro di Siodmak al più recente The Prestige di Nolan –, altri hanno cercato di indagare i gemelli più a fondo, scientificamente e psicologicamente, come Peter Greenaway con Lo zoo di Venere e David Cronenberg con Inseparabili (entrambi presentati a Toronto, come Indivisibili). Invece l’approccio di De Angelis, che ha scritto il film con Nicola Guaglianone (Lo chiamavano Jeeg Robot) e Barbara Petronio (Romanzo criminale - La serieMozzarella StoriesACAB), non è né scientifico, psicologico, né tantomeno narrativo: è diverso, emotivo. Il riferimento diretto è a Freaks di Tod Browning – Daisy e Viola come Daisy e Violet Hilton, le gemelle siamesi protagoniste del film – e ancor più alla vera storia delle sorelle Hilton, attaccate all’altezza dell’anca come le gemelle indivisibili e, a differenza delle protagoniste del film, inseparabili anche dopo la morte. De Angelis prende in mano la realtà e nella finzione cinematografica ne ribalta la prospettiva: se le Hilton, britanniche, avevano scelto di vivere insieme ogni momento fino a farsi seppellire insieme, Daisy e Viola, di sangue campano, combattono l’una contro l’altra per definire le proprie identità di singoli.

«Sono cresciuto nella 167 di Centurano, frazione di Caserta. Sulla mia testa c’era una cava di calce abbandonata, una montagna sventrata. Di fronte a me, gli scavi delle fondamenta di un centro direzionale mai costruito, un buco grande come un cratere mai colmato. Dentro di me, un forte desiderio di bellezza. Qualunque cosa sia il mio cinema, nasce da lì». Le parole del regista raccontano di una Campania che si àncora dentro, promessa mancata e spinta potente. Una contraddizione che abita il film, simbolica la sequenza d’apertura con l’Ave Maria intonata durante la festa per la prima comunione, in una commistione tra alto (il canto sacro) e basso (la volgarità dell’ambiente) tipica della natura campana, che riporta al cinema di Sorrentino, a Reality di Garrone, ma che era già tutta nelle corde del primo De Angelis di Mozzarella Stories, che si apriva proprio con una festa intorno a una piscina. La lotta tra alto, della fotografia di Ferran Paredes Rubio (Zoran, il mio nipote scemoPerez.), e basso, delle scenografie di Carmine Guarino e dei costumi di Massimo Cantini Parrini, è il conflitto di cui vive il film, la lotta tra turpe e sublime, tra squallore e candore, tra religione e intrattenimento.

Attorno alle strepitose protagoniste Angela e Marianna Fontana, legate insieme da una protesi per tutta la durata delle riprese, una famiglia che è un circo ambulante, un baraccone contro cui (in)sorge il candore delle gemelle. La madre abulica e senza carattere, il padre possessivo che le costringe al dialetto e vieta loro di cantare in inglese, rappresentano l’oscenità di quel baraccone, ma nella loro incapacità di essere padre e madre oltre la pura definizione biologica Titti e Peppe strappano più volte la scena con le unghie, la conquistano con la loro autenticità. «Cercavo la straordinaria ribellione della purezza contro la prepotenza della corruzione», dice De Angelis, «e ho trovato l’umanità struggente della normalità». Un’umanità che alberga negli occhi pesanti e fragili di Antonia Truppo, nelle rughe incavate di Massimiliano Rossi – già l’esilarante Dudo di Mozzarella Stories –, in una prova maiuscola, rabbiosa e dolente, di un padre pieno d’amore e a un tempo succube dell’ossessione per il denaro, tanto schiavo lui stesso da rendere schiave le proprie figlie.

Abbigliate da madonne, la veste sopra il capo, vengono rivendute in squallidi gadget degni di Lourdes e Medjugorje – la sfera di vetro con la neve, i poster, i selfie con i credenti. E come madonne, alla fine, piangono


E il mondo esterno al circo familiare non è migliore. L’agente Marco Ferreri, sempre posizionato nell’inquadratura tra le teste delle gemelle, perché le divide, che accondiscende alle loro richieste per portare a letto Viola e che sottocoperta nasconde un campionario di freaks che ricordano il Fellini più macabro. Il parroco, che le sfrutta per la loro presunta santità e costringe il padre ad esibirle. Le due sorelle non sono soltanto cantanti, sono sante, elette, portate in giro come si porta una reliquia da toccare per accedere alla salvezza. Abbigliate da madonne, la veste sopra il capo, vengono rivendute in squallidi gadget degni di Lourdes e Medjugorje – la sfera di vetro con la neve, i poster, i selfie con i credenti. E come madonne, alla fine, piangono. C’è un’immagine su tutte, uno squarcio lirico che si apre nelle maglie della narrazione: la macchina da presa che scorre orizzontale lungo la spiaggia, un Cristo con una mano spezzata incagliato nella sabbia, e sullo sfondo la luce bianca del sole che divide in due il mare – Nuie e ll'acqua si intitola una delle canzoni della colonna sonora, evocativa e struggente, firmata da Enzo Avitabile. Nella stessa acqua in cui fallisce il progetto di fuga delle gemelle, costrette nel finale a sfilare in processione, sanguinanti per il taglio di una lama che Viola, come la pianista di Haneke, si conficca nel cuore per liberarsi della vita che la schiaccia.

Eppure, in questa lotta solitaria contro il resto del mondo, le gemelle trovano una via d’uscita in loro stesse. Vogliono cantare in inglese perché la musica di Napoli le imprigiona, nell’eterna ripetizione delle hit Drin, drin e Indivisibili – scritte da Riccardo Ceres, autore della colonna sonora di Perez. –, ma in cerca della Los Angeles che vuol dire libertà, delle canzoni di Janis Joplin che il padre gli impedisce di cantare, Daisy e Viola si smarriscono. Per poter prendere in mano la loro vita devono prima purificarsi nelle acque del proprio mare, attingere alla lingua della propria terra che vive dentro di loro e che gli parla. Ogni parola conta, e non è un caso che persino le canzoni siano sottotitolate. «Se sape come se nasce, ma nun se sape come se more», canta Enzo Avitabile in Tutt'egual song' 'e criature. Così, in Indivisibili, le gemelle sanno come sono nate, e lottando per capire se il loro destino è vivere insieme o separate, scelgono come morire. Si scavano nel cuore un buco grande come un cratere mai colmato. Dentro di loro, esplode il desiderio di bellezza. Parte dal petto ed esce dalle labbra, con le parole di Janis Joplin sussurrate all’orecchio in segno di nuova vita e, finalmente, di libertà.
 

«Le canzoni belle sono sempre tristi»
ITA 2016 – Dramm. 100’ ★★★

 

Clicca qui per leggere l'intervista completa a Edoardo De Angelis
pubblicata su L'Eco del Nulla N.3 "Indagini e ricerche"


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