Il tiranno
Trasformazione e eversione politica negli Uccelli di Aristofane
Nel 431 a.C. tra Atene e Sparta scoppia la guerra cui Tucidide ha consacrato le sue Storie immortali: ne moriranno la democrazia attica e più tardi la stessa libertà delle póleis. Alla pace di Nicia del 421 seguono anni incerti: instabile per l’avvicendarsi al potere di un “partito della pace” e di un “partito della guerra”, nell’inverno a cavallo tra il 416 e il 415 Atene vagheggia la conquista della Sicilia. È assecondando l’espansionismo ateniese che Alcibiade di Clinia saprà far approvare all’assemblea un’impresa militare congeniale alle sue aspirazioni politiche quanto alla sua personalità, che per superbia e sprezzo delle consuetudini offre ad alcuni sguardi atteggiamenti degni di un tiranno. Spenta ormai la stirpe di Pisistrato, la tirannide vive nell’immaginario: tendenze eccessive alla differenziazione di sé rispetto ad un certo limite comportamentale condiviso passano per sintomi d’inclinazioni tiranniche e possono delegittimare chi ne ha. Nella sua Vita di Plutarco sovente Alcibiade rientra nel margine di rischio, ma la sua forza politica perdura grazie alla prodigalità, la bellezza, l’eloquenza e le virtù militari che sempre gli assicurano il favore popolare. Ma appena prima che la flotta salpi, quasi tutte le erme (i busti di Ermes ai crocicchi) sono mutilate e dalle indagini emerge che alcuni, tra cui Alcibiade, hanno parodiato i misteri di Eleusi. Nella doppia profanazione si riconosce il segno di un complotto antidemocratico e, approfittando dell’assenza di Alcibiade, partito comunque con la flotta, i suoi vari e numerosi nemici si adoperano perché le accuse ricadano tutte su di lui, già tanto esposto per la sua condotta. Così l’apprensione di pochi si muta nell’aggressiva certezza della maggioranza e il popolo riconosce in Alcibiade il fautore d’una congiura oligarchica, o addirittura tirannica, contro la democrazia. Condannato a morte, per evitare l’esecuzione Alcibiade tradirà (una prima volta), fuggendo a Sparta. I suoi avversari lo incastrano grazie all’azione delle eteríe: nel V secolo questi circoli aristocratici d’ispirazione conviviale si rifondano sull’interesse politico per favorire un gruppo entro lo Stato, controllando magistrature e tribunali o influenzando politica estera e vita religiosa. Dato il continuo mutare delle maggioranze politiche, volentieri il gruppo serve un individuo: lo stesso Alcibiade ha una sua personale eteria. L’assommarsi degli scandali, delle accuse e dei processi, il ribollire delle consorterie e lo spettro di una cospirazione eversiva precipitarono Atene in una sorta di psicosi collettiva che forse contribuì al diffondersi dell’opinione che l’ordine democratico, incapace di tutelare il cittadino, dovesse essere riformato. Tali tensioni percorrono gli Uccelli, la commedia che Aristofane scrisse e rappresentò tra 415 e 414, a ridosso della vicenda: apparentemente, un’evasione dalla difficile realtà che non dipenderebbe dal presente ateniese, com’è invece per quasi tutto l’Aristofane a noi giunto. Tuttavia, benché i protagonisti degli Uccelli ne fuggano, non è altrove, ma in una certa Atene che gli Uccelli sbattono le ali: Aristofane manda in scena proprio una riforma costituzionale, ma il personaggio che la promuove, Pistetero, sembra essere tutt’altro che capace di giovare alla comunità.
Pistetero ed Evelpide non sopportano più Atene: se ne vanno. Cercano libertà nel regno degli uccelli e tentano Upupa, l’uomo Tereo che gli dèi hanno fatto uccello per punizione, perché ve li introduca. Gli uccelli si oppongono, ma Pistetero promette che, se lo lasceranno vivere come uno di loro, i volatili riavranno il potere che ab ovo tenevano e che gli dèi hanno usurpato: devono soltanto obbedirgli nel dar vita al suo piano e saranno padroni del mondo. Lusingati e persuasi, gli uccelli accettano, sottomettendo la loro forza alla sua mente: dal desiderio di libertà personale emerge la gerarchia di un nuovo potere. Durante la parabasi i due vecchi ateniesi sono assorbiti nella nuova natura; ricompariranno sulla scena da uomini-uccelli. Allora Pistetero realizza la gerarchia appena stabilita, ordinando ad Evelpide di cooperare al suo progetto, la una nuova città di Nubilocuculia: «Gli uccelli devono riunirsi in un’unica città, e poi devono fortificare il cielo intero e tutta l’aria in mezzo […] Una volta pronto il muro, si chiede a Zeus il potere». Il periteichìzein [περιτειχίζειν, cingere di mura, da teichos (τεῖχος), “muro”] è condizione di un arché [ἀρχή, potere] che ha subito dimensione territoriale: assistiamo non alla fondazione di una favolosa città celeste, ma alla ricostruzione di Atene, come centro di un dominio permesso concretamente e insieme simboleggiato dalle Lunghe Mura quanto da quella flotta che, nell’Atene dei demagoghi e dei marinai della fine del V secolo, è baricentro della vita politica, e che negli Uccelli è più volte evocata accanto alle mura; è Upupa a dire che «è dai nemici, e non dagli amici che le città hanno imparato ad edificare alte mura e a tenere una flotta».
Partito in cerca di quiete e libertà, ora Pistetero vuole potenza politica e militare, perché il muro serve a comandare gli uomini e far morire di fame gli dèi, «come quelli di Melo»: l’Olimpo va assediato e preso per fame, così come Atene aveva fatto nel 416 contro l’isola di Melo. La trasformazione di Pistetero prosegue e si radicalizza. Svanito Upupa, liquidato Evelpide, Pistetero rimane solo, nel suo essere ibrido, a dominare la massa dei piumati; altri uomini vogliono entrare a Nubilocuculia, ma Pistetero li scaccia tutti, dal sacerdote all’indovino, dall’ispettore al sicofante – parassiti che spezzerebbero l’unicità di Pistetero incrinandone l’egemonia, e riprodurrebbero a Nubilocuculia i vincoli sociali e istituzionali di Atene. Infine, sfida l’ordine divino: preoccupati e affamati perché le mura intercettano il fumo dei sacrifici, loro unico nutrimento, gli dèi inviano un’ambasceria che Pistetero rimanda a casa sconfitta. Sfruttando la dabbenaggine di Eracle, li convince che è meglio che Zeus ceda agli uccelli il governo dell’universo: infatti Eracle non può ereditare il potere paterno, perché sua madre, Alcmena, è «donna straniera», e per la legge di Atene è cittadino di pieni diritti (tra cui quello all’eredità) chi ha ambedue i genitori cittadini. Alcmena, donna mortale, non risulta all’anagrafe dell’Olimpo. Così Pistetero rovescia gli dèi col diritto attico, ma dopo aver allettato Eracle con la promessa di una scorpacciata, ché sta cucinando qualcosa: sono «uccelli riconosciuti colpevoli di rivolta contro il governo democratico». Ottenuto l’assenso divino, Pistetero segue il consiglio che poco prima gli ha dato un provvidenziale Prometeo: sposare Basileia (“regina”), la dea che ha le «chiavi della folgore di Zeus». Essa amministra anche «tutto il resto: il buon governo, le leggi giuste, la temperanza, gli arsenali, la calunnia, i tesorieri e la paga dei giurati». Una sorta di sinossi della civiltà politica ateniese, a conferma che Nubilocuculia è un’Atene riformata secondo le esigenze e la volontà di uno.
Ed ecco Pistetero avanzare su un carro, affiancato da Basileia, annunciato da araldi e festeggiato dagli astanti come «sommo dio». La trasformazione da anonimo volto della comunità a suo signore e padrone è compiuta. La scena assomiglia a Erodoto, quando racconta di un esiliato che finse di avere con sé Atena in persona perché Atene lo riaccogliesse come suo sovrano: il tiranno Pisistrato. L’idea di tal nome collima allora col suono di Peisthétairos, che ha dentro sé anche la pístis [πίστις], il vincolo di fiducia che fondava le eterie – comprese quelle oligarchiche che a breve, nel 411, avrebbero per qualche tempo rovesciato la democrazia. Se l’araldo parla all’orchestra e alla cavea, i coreuti-uccelli e gli spettatori-uomini si confondono, tutti intenti a celebrare il týrannos Pistetero: un’asimmetria verticale, forse in grado di oltrepassare l’illusione teatrale e suggerire che in scena c’era un tipo d’uomo ben preciso, capace di guadagnare ai propri desideri di cambiamento l’appoggio della comunità con la persuasione e a questo fine disposto a mutare d’aspetto, purché rimanesse diverso e superiore a tutti gli altri. Col tradizionale banchetto soltanto annunciato, per di più dalla macabra nota degli uccelli-cospiratori arrosto, e un protagonista deviato, nel subordinare il bene comune al suo esclusivo profitto di dominatore, quello degli Uccelli è un insolito finale. Perplessi e delusi, almeno gli spettatori più attenti poterono vedere in Nubilocuculia non un mondo altro e beato, ma un’Atene sovvertita da un personaggio che, per la fusione di trasformismo e personalismo, per gli atteggiamenti autocratici, per il legame con le eterie e l’effettiva ma ambigua grandezza in parole e opere, sembra un demagogo intento a ricavarsi un pericoloso potere personale con deliranti promesse di potere, come Alcibiade aveva fatto con Atene per spingerla in Sicilia. Poteva forse venire il dubbio che Pistetero ricordasse proprio costui.
Realizzato in collaborazione con Viola Palmieri e Francesca Pezza
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