Il suonatore Giulio
Fu sorpreso dai suoi novantaquattro anni. E con la vita avrebbe ancora giocato
Intorno alla sua figura, in fondo, aleggia ancora una vaghezza palpabile. Persiste un sentore di indecifrabilità diffuso, intorno a Giulio Andreotti, uno dei protagonisti della Storia del nostro Paese, per novantaquattro anni, tra luci ed ombre, sempre impassibile. Si è spento senza clamori, in sordina, dopo essersi ritirato con discrezione dalla politica. Chiuso nella sicurezza del proprio silenzio, tra le mura di casa. Un silenzio definitivamente sigillato e affondato sotto la terra, in cui si perdono i ricordi di un’Italia logorata dalla spregiudicatezza e dall’irresponsabilità. E le verità, la sua, è definitivamente inarrivabile. E si scopre mortale, anche lui. Si legge nelle prime pagine dei giornali il profluvio d’ufficio di dichiarazioni di commiserazione, prontamente affidate ai comunicati stampa ufficiali, eleganti e necessari, che trasudano di un trito e asettico desiderio di assolvere e dimenticare in fretta ciò che è stato. Sovrascrivendo in un giorno le pagine della nostra Storia e dei suoi ben noti diari.
Una figura granitica, di eschilea impenetrabilità. Cinico. Imperturbabile. Tranchant. Crepuscolare nell’animo. Fino dalla giovane età in politica, dai tempi dell’università. Il sogno di fare medicina sacrificato sui codici della giurisprudenza per ragioni economiche. Casa e chiesa e associazione giovanile di universitari cattolici. Un tempo, da giovane, anche drittissimo, come ebbe a dire. Senza la gobba, insomma. E, evidentemente, da sempre dotato di pungente ironia. Spiazzante, talvolta. Il modo migliore per eludere l’indiscretezza dei postulanti, per semplificare ogni problema, e ridurlo ad un semplice enunciato. Mentre si accomodava nelle dolci braccia del potere, e si lasciava avvolgere da un abbraccio che pareva infinito.
Non è retorica sostenere che con la scomparsa di Andreotti scompare una parte consistente della Storia dell’Italia. Perché il Divo – come lo soprannominò proprio Mino Pecorelli, il giornalista per il cui omicidio fu indagato Andreotti stesso, accusato di esserne il mandante – ha attraversato gli anni più torbidi e tormentati del nostro passato. Pressoché indenne. O assolto, se si preferisce. Anche per prescrizione. Ha vissuto la Storia travagliata del nostro Paese da protagonista, sette volte come presidente del Consiglio, otto volte come ministro della Difesa, cinque volte come ministro degli Esteri. E come un grande principio ordinatore, quasi un deus abscondidus, ha saputo gestire dall’ombra gli equilibri più delicati, con melliflua accortezza e avvedutezza. Ha mutato posizione ogniqualvolta le circostanze lo richiedessero, delicatamente, con quella levità tipica del politico d’esperienza. E nel grande gioco del potere ha saputo conquistarsi a poco a poco la propria parte, intessendo con dedizione fitti intrecci di interessi. Fino ad arrivare a vedere consolidato il proprio ruolo di fondamentale trait-d’union tra la Santa Sede e Roma, e tra Roma e Washington, sempre secondo convenienza, con l’incostanza che lo ha contraddistinto. Come quella manifestatasi con il caso di Sigonella, che vide i carabinieri schierati contro i marines, a tutela dei terroristi palestinesi dell’Achille Lauro. Oppure il tanto inatteso quanto scomodo placet al tentativo dell’Eni di Mattei di imporsi nel mercato globale dei carburanti, minando così gli interessi delle Sette sorelle, fintanto che il sogno non si schiantò al suolo nelle campagne di Bescapè, vicino a Pavia.
Nell’ascesa al potere, gli ostacoli gli vennero meno, cadendo sotto i colpi inferti dai processi e dagli scandali, e i suoi concorrenti furono costretti a ritirarsi dalla vita pubblica. Sospinto dai venti della democrazia cristiana, riuscì a diventare ministro degli Interni a trentacinque anni. Da quel momento, superò la soglia del non-ritorno. Inamovibile, resistendo ai presunti tentativi di colpi di stato, alle morti sospette e ai dossier traboccanti di evidenze. Resistette, con l’imperturbabilità che lo ha sempre contraddistinto, schivando ogni colpo con un indistruttibile scudo. Crociato, peraltro.
Non lo scalfiscono gli anni Settanta, il fiume in piena di Piazza Fontana, delle prime avvisaglie della P2, delle Brigate Rosse e del rapimento di Aldo Moro. Le critiche si levano, i sospetti si fanno sempre più pressanti. E due processi lo vedono coinvolto, uno per concorso esterno in associazione mafiosa, l’altro in cui fu accusato di essere il mandante dell’omicidio di Pecorelli. Da cui emerse indenne, come sempre.
L’incertezza, però, ammanta ogni dettaglio. La verità sfugge. Non si riesce a comprendere appieno l’estensione dell’intrico di cui Andreotti è stato protagonista accorto e calcolatore. Perché è riuscito insieme al sostegno di un’intera classe dirigente ad appropriarsi dell’auctoritas, quel potere così bramato da risultare quasi un’ossessione, tra un’emicrania e l’altra. Ma nell’indifferenza di un Paese intero, il Divo è stato in grado di soddisfare appieno il latente amor sceleratus habendi, e segnare la Storia. E la silenziosa ascesa al potere di un uomo solo e della sua schiera si è consumata nell’indifferenza generale, di un’Italia troppo disinteressata della cosa pubblica, miope e pronta ad assolversi, pur di non dover fare i conti con la realtà dei fatti.
Adesso è l’occasione per l’oblio. Tra le mura dell’appartamento nel centro di Roma si può sigillare un’epoca. I sospetti che si sono addensati negli anni sono pronti a decadere con plebiscitaria assoluzione dettata dalle più formali esigenze di cordoglio. Qualche parola sarà sufficiente ad assolvere il peccato di un cristiano, perlopiù se defunto. Requiescat in pace, e così sia. Il passato, ormai, non ha importanza, sotto qualche metro di terra. Perciò sono significative le parole del Capo dello Stato, che in maniera laconica, all’uscita della camera ardente, afferma che “potranno esprimersi valutazioni approfondite e compiute solo in sede di giudizio storico”. Quasi a dire che la giustizia non è riuscita a fare chiarezza, purtroppo. La Storia ha tutto il tempo per fare valutazioni. E non raggiungere mai alcuna verità chiara e distinta.
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