Il ruggito del leone

La guerra civile siriana tra baathisti e salafiti

Dopo più di una settimana di combattimenti nella città siriana di Qusayr, lungo il confine con il Libano, lo scontro tra le truppe del Presidente Bashar al-Assad, il “Leone di Damasco”, e le forze ribelli, si è concluso con la capitolazione di questi ultimi. Ora che le operazioni militari in città sono terminate, può essere utile fare il punto della situazione.
Per prima cosa, occorre sgombrare il campo dalla propaganda dei media europei e nordamericani, che hanno descritto la Primavera Araba (e la sua declinazione siriana) come una romantica lotta di giovani democratici che, grazie al potenziale dei social network, sono finalmente riusciti ad organizzarsi contro il tiranno. Allo stesso modo è bene prendere cum grano salis anche la visione degli organi ufficiali del regime baathista, secondo cui i disordini sarebbero opera esclusiva di gruppi esterni di terroristi islamici.
In effetti, secondo alcuni osservatori le cause della Primavera Araba sarebbero principalmente di natura socio-economica. Gli effetti della crisi mondiale avrebbero colpito le economie più deboli e le società più diseguali del mondo arabo, sotto forma di un’enorme disoccupazione giovanile, che, in Paesi dove i giovani rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, si è rivelata fatale per i regimi autoritari laici di Tunisia, Egitto e Libia. Le teocrazie della penisola araba, invece, non sarebbero state raggiunte dal contagio rivoluzionario proprio grazie alla prosperità economica e all’egualitarismo nella distribuzione della ricchezza da cui sono caratterizzate.

Non è un caso che l’unica monarchia della regione ad essere interessata da disordini di una certa entità sia stata, nel 2011, quella del Bahrein, la cui economia è caratterizzata da un’ampia forbice nella distribuzione della ricchezza, concentrata nelle mani della minoranza sunnita che domina l’isola, a scapito della maggioranza sciita. Le dimostrazioni messe in atto dall’opposizione hanno presto assunto i tratti di una “guerra di religione”, che però è stata prontamente repressa nel sangue, con il benestare dell’Occidente dei diritti umani, dall’intervento di una “Santa Alleanza” delle monarche legittimiste, guidata dall’Arabia Saudita.
I caratteri della rivolta in Bahrein ricordano da vicino la situazione siriana, con le dovute differenze. Istituzionalmente Damasco non potrebbe essere qualcosa di più distante da una monarchia teocratica e conservatrice come il Bahrein. La Siria, infatti, è una repubblica autoritaria guidata dal partito Ba’ath, che si ispira ai principi del nazionalismo arabo, della laicità dello Stato e della pianificazione socialista dell’economia. Come in Bahrein, tuttavia, anche in Siria ai contrasti sociali si sovrappone il fattore religioso. Infatti, il potere politico ed economico è monopolizzato da una minoranza di matrice sciita (gli alawiti), costituita dal clan degli Assad, dai quadri della burocrazia, dalla gerarchia militare e dai dirigenti dell’economia pianificata. Questa minoranza, che riceve il sostegno dei sunniti benestanti e, per il suo orientamento laico, dei gruppi cristiani, di rado è stata minacciata dalle masse contadine sunnite, che, prima del 2011, avevano (quasi) sempre tollerato i diktat di Damasco in virtù della relativa stabilità economica garantita dal regime.

Tuttavia, gli effetti della crisi mondiale e la carestia del 2011 hanno fatto della Siria una polveriera sociale pronta a esplodere. Le difficoltà economiche, infatti, hanno creato uno sterminato esercito di giovani disoccupati senza nulla da perdere - e l’eco delle rivoluzioni nordafricane ha rapidamente acceso la miccia della rivolta. A poco è servita, in questo quadro, la concessione da parte di Assad di una nuova costituzione sul modello francese. Infatti, nel corso dell’anno i disordini hanno condotto alla formazione, ad opera di alcuni ufficiali dissidenti, dell’Esercito Siriano Libero, seguita dall’istituzione del Consiglio Nazionale Siriano, un litigioso “governo in esilio” dei movimenti di opposizione, sia democratici sia islamisti, con sede a Istanbul. Nonostante gli sforzi di questo consiglio transitorio, qualsiasi (timida) ipotesi di intervento nel Paese a favore dei rivoltosi è stata bloccata in sede di Consiglio di Sicurezza da Russia e Cina e, nell’estate del 2012, l’ONU ha riconosciuto che in Siria i disordini erano ormai degenerati in guerra civile.
Nell’impasse il malcontento delle masse contadine sunnite è stato facile preda dei fondamentalismi. Non è certo un mistero che i movimenti islamisti siano i più attivi nella lotta contro Assad e la potente minoranza alawita, mentre i richiami dei partiti democratici ai diritti umani e alla non-violenza non hanno avuto la stessa capacità di organizzare il dissenso, assumendo posizioni del tutto marginali. Più che ai grigi funzionari dei minuscoli movimenti liberali siriani, il favore popolare va tutto alle formazioni di mujaheddin in lotta contro lo strapotere sciita e i sacrilegi dello Stato laico.

In ogni caso, la situazione attuale sembra favorevole al regime di Damasco. All’interno, infatti, l’Esercito Libero ormai non è altro che un brand sotto cui operano gruppuscoli disorganizzati di guerriglieri locali e il Consiglio Nazionale è attraversato da fratture troppo profonde tra partiti democratici e confessionali per organizzare efficacemente la rivolta, senza contare le divisioni interne alle due fazioni principali, tra liberali e socialdemocratici, e tra islamici fondamentalisti e moderati, cui va aggiunto il separatismo dei curdi, inviso a tutti gli altri. La casta burocratico-militare baathista, al contrario, ha mantenuto l’appoggio delle élite economiche e culturali agitando, non senza motivo, lo spettro della rivoluzione islamica e del terrorismo di al-Qaida. All’estero, Assad può contare sul sostegno diplomatico e militare della Russia di Putin, che non ha alcuna intenzione di perdere l’unico “porto amico” che le resta nel Mediterraneo, e dell’Iran sciita, che ha sempre visto nella Siria un utile strumento di contenimento sia dell’Iraq sia di Israele. Nel capo ribelle, viceversa, gli islamici moderati ricevono scarsi aiuti da Turchia e Giordania, mentre le frange salafite sono foraggiate con parsimonia da Arabia Saudita e Qatar, mentre USA e UE, di fronte all’attivismo islamico e all’esito infelice delle altre “primavere”, si limitano a organizzare, senza convinzione, infruttuose conferenze a Ginevra. Pure Israele, che non ha mai avuto buoni rapporti con il regime degli Assad, teme per una rinascita del fondamentalismo religioso anche in Siria, dopo che ha dovuto rassegnarsi al trionfo dei bellicosi Fratelli Musulmani in Egitto.

Divisa al suo interno e isolata sul piano internazionale, dunque, l’opposizione siriana non pare avere molte chance di successo, mentre il pugno di ferro del “Leone di Damasco” sembra andare bene a tutti. Ma anche se la situazione si ribaltasse completamente, la democrazia elettiva che sostituirebbe il vecchio leader autoritario, secondo ogni previsione, non favorirebbe, con il voto radicalizzato delle masse contadine, che l’islamizzazione dello Stato, il quale assumerebbe un orientamento oscurantista verso i diritti civili (promuovendo la tradizione patriarcale) e socialmente conservatore (enfatizzando la sacralità della proprietà privata), sul modello tunisino e, più marcatamente, egiziano. Nel generale riflusso reazionario che caratterizza la Primavera Araba, resta perciò difficile che un’eventuale Siria “liberata” possa rappresentare un’isola felice di democrazia e progresso.

 




In collaborazione con La Clessidra

 

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