Il riconoscimento internazionale è un’arma a doppio taglio | Intervista ad Asghar Farhadi
Il regista iraniano due volte premio Oscar parla di censura e del rapporto con i media, in patria e all’estero
Ritirare il proprio film dagli Oscar sarebbe un suicidio per la maggior parte dei registi, ma a novembre Asghar Farhadi sembrava a un passo dal farlo. Poco dopo che il comitato cinematografico controllato dallo stato iraniano ha candidato il suo film, Un eroe, all’Oscar come miglior film internazionale, Farhadi ha rilasciato una dichiarazione su Instagram dicendo che era «stufo» delle insinuazioni dei media iraniani riguardo il suo presunto appoggio alla linea dura del governo: «Se candidare il mio film agli Oscar vi porta a credere che sono in debito con voi», ha scritto, «dichiaro esplicitamente che non ho alcun problema a farvi revocare questa decisione».
Come può qualcuno associarmi a un governo i cui media estremisti non si sono risparmiati per distruggermi, emarginarmi e stigmatizzarmi?
Farhadi, si potrebbe dire, può permettersi di fare un gesto del genere. Ha già vinto due Oscar per il miglior film internazionale – per Una separazione nel 2012 e Il cliente nel 2017 – e molti altri premi (Un eroe ha vinto il Grand Prix a Cannes l’anno scorso). Successi come questi lo portano inevitabilmente a essere considerato un eroe nazionale. Allo stesso tempo, sembra aver seguito una linea molto prudente nei confronti del regime oppressivo del suo paese. Altri registi iraniani, come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, hanno pagato a caro prezzo l’aver criticato certi aspetti della società iraniana, sono stati arrestati, condannati agli arresti domiciliari o gli è stato impedito di lasciare il paese. A Farhadi sembra essere stato risparmiato un trattamento simile. Da qui le accuse di avere una posizione “pro governo”. Nella sua dichiarazione Farhadi ha palesato tutto il suo dissenso: «Come può qualcuno associarmi a un governo i cui media estremisti non si sono risparmiati per distruggermi, emarginarmi e stigmatizzarmi?» Ha scritto di come il suo passaporto è stato confiscato e di come è stato interrogato negli aeroporti, gli è stato detto di non tornare in Iran ed è rimasto in silenzio di fronte alle «accuse e agli insulti» del governo. Fino a ora.
Parlando da Parigi, tramite un interprete, Farhadi non vuole scendere in ulteriori dettagli. «È una questione molto complessa», dice. «Non so quale traduzione abbiate letto. Le persone che non conoscono il mio paese potrebbero aver frainteso, ma gli iraniani l’hanno capito chiaramente. Il messaggio era rivolto ai miei connazionali». C’è una certa impazienza nel tono di Farhadi. Sembra rassegnato al fatto di dover sempre discutere del suo status di cineasta iraniano tanto quanto dei suoi film. Ma forse sembra anche essere consapevole che qualsiasi cosa dica potrebbe essere usata contro di lui in patria. Il riconoscimento internazionale è «un’arma a doppio taglio», dice. «Ti protegge in un certo senso, ma rende [le autorità iraniane] più sensibili. Qualsiasi cosa tu dica, qualsiasi cosa tu faccia, è sotto i riflettori».
Paradossalmente, Un eroe parla proprio del ruolo dei media nel costruire e distruggere gli eroi. Il suo protagonista è Rahim, un padre divorziato con un sorriso che conquisterebbe chiunque. Durante un giorno di permesso dalla prigione, Rahim e la sua fidanzata trovano una borsa contenente delle monete d’oro. All’inizio cercano di venderle, ma poi Rahim, interpretato da Amir Jadidi, decide di trovare il proprietario della borsa e restituirla. La storia si diffonde e Rahim viene salutato come un eroe. Una troupe televisiva viene a fare un servizio su di lui in prigione e un ente di beneficenza locale organizza una raccolta fondi per aiutarlo a pagare il suo debito. Ma poi una serie di mezze verità sull’incidente si trasforma in un’intricata rete di inganni in cui tutte le persone coinvolte si trovano intrappolate. «In realtà», dice Farhadi, «ciò che sta al centro del film è la repentina ascesa e caduta di un uomo. E questo è qualcosa che osserviamo spesso nella nostra epoca: persone che vengono messe sotto i riflettori molto rapidamente, e altrettanto rapidamente ne vengono allontanate».
I film di Farhadi hanno la capacità di far sembrare la vita ordinaria un thriller denso di suspense. Sono così realistici da sembrare dei docudrama, eppure sono carichi di tensione, sorpresa e mistero. La sua prima opera di successo, About Elly, racconta l’inspiegabile scomparsa di una donna in vacanza con un gruppo di amici. La trama di Il cliente gira attorno a una donna che subisce un’aggressione sessuale da parte di un colpevole non identificato. Allo stesso modo, in Un eroe, Rahim è alla ricerca della donna misteriosa che ha rivendicato la proprietà della borsa scomparsa in modo da poter convalidare la sua versione dei fatti (anche utilizzando espedienti che lo fanno finire ancora più nei guai).
I film di Farhadi hanno la capacità di far sembrare la vita ordinaria un thriller denso di suspense
«Ciò che mi interessa davvero, e di cui voglio occuparmi, è la vita quotidiana, ordinaria», spiega Farhadi. «Questo aspetto è molto prezioso per me. Ma sono consapevole del pericolo che la narrazione risulti noiosa e piena di dettagli ripetitivi su cui nessuno ha voglia di concentrarsi. Quindi la storia deve essere sì realistica, ma con degli elementi di suspense che incuriosiscano il pubblico». Come in ogni altra opera di Farhadi niente è bianco o nero, in Un eroe non ci sono personaggi univocamente “buoni” o “cattivi”. Dietro la bontà d’animo, Rahim si rivela essere ambiguo. «Come regista non giudico i personaggi», dice Farhadi. «Non penso che non debbano essere giudicati: tutt’altro, il mio è un invito a giudicare, ma lo lascio fare al pubblico. Non voglio imporre il mio punto di vista».
Farhadi riconosce che i suoi film sono meno apertamente politici di altre opere dei suoi colleghi iraniani. Il recente Il male non esiste di Mohammad Rasoulof è un atto di accusa contro la pena di morte e la coscrizione. Rasoulof, bandito dal mondo del cinema e condannato a un anno di prigione nel 2020 (ma che finora è riuscito a evitare), mentre girava in remote località rurali ha dovuto utilizzare degli stratagemmi da guerriglia, usando nomi e sceneggiature false. Farhadi, al contrario, è ormai un cineasta internazionale. Ha girato anche in Francia (Il passato) e in Spagna (Tutti lo sanno), con attori del calibro di Penélope Cruz e Tahar Rahim. In Iran, spiega, tutto dipende dal tipo di film che stai facendo. «Se il tuo soggetto o il tuo modo di raccontare storie è meno direttamente sociale o politico, allora può essere meno problematico, facciamo del nostro meglio rispettando le restrizioni. Ma dipende anche se vuoi o meno che i tuoi film siano proiettati in Iran, e questa è sempre stata la mia priorità».
Dividere il mondo nelle categorie “noi” e “i nostri nemici” crea paura, una giustificazione ingannevole per l’aggressione e la guerra
Tuttavia, Farhadi non ha vita facile. Oltre a ricevere critiche per le sue posizioni “filogovernative”, viene anche accusato del contrario. «Sono sempre gli integralisti e i loro media, mi accusano di dare un’“immagine non realistica” del paese. Non sono per niente d’accordo, nonostante le vicende intricate che descrivo nei miei film, l’immagine che emerge delle persone, dei personaggi e delle relazioni è molto nobile. Non riesco a capire a quale “immagine non realistica” si riferiscano». Farhadi si è pubblicamente espresso contro la linea dura del governo iraniano. È stato uno dei numerosi registi che hanno accompagnato Rasoulof in tribunale per opporsi alla sua incarcerazione. Tramite post su Instagram, Farhadi ha fatto sapere al governo le sue opinioni su molte questioni, dall’abbattimento accidentale di un jet passeggeri ucraino nel gennaio 2020 alla «crudele discriminazione contro le donne e le ragazze» e al «modo in cui il paese ha permesso al coronavirus di massacrare il suo popolo».
Allo stesso modo, Farhadi ha preso posizione contro l’estremismo occidentale. Si è rifiutato di partecipare agli Academy Awards del 2017 per protesta contro il controverso divieto d’ingresso negli Stati Uniti imposto dal governo Trump a sette paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Iran. Il suo discorso di accettazione del premio è stato letto dall’ingegnere iraniano-americano Anousheh Ansari. «Dividere il mondo nelle categorie “noi” e “i nostri nemici” crea paura, una giustificazione ingannevole per l’aggressione e la guerra», ha scritto. Poteva riferirsi sia agli Stati Uniti che all’Iran. «Tutti i tipi di estremismo si somigliano moltissimo», dice. «Sono più o meno tutti uguali».
Farhadi crede che la cultura possa essere un’arma contro tutto questo. Indipendentemente da dove sono ambientati, i suoi film affrontano qualità e fragilità umane universali: creano, dice, empatia tra il “noi” e il “loro”: questa è sempre stata la sua missione. Crede che la cultura stia vincendo questa battaglia? «Non lo so, ma penso che certe cose richiedano tempo, l’impatto delle arti, della letteratura e del cinema si misura nel lungo periodo». Sembra essere sopravvissuto almeno a questa battaglia: Un eroe rappresenta l’Iran agli Oscar 2022. A differenza di Rahim, il protagonista del film, la storia di Farhadi non è né moralmente ambigua né un racconto di ascesa e caduta. Si considera un eroe? «Per niente», dice. «Ho sempre detto che non sono altro che un regista. Non voglio essere altro».
Steve Rose è un giornalista inglese. Ha scritto per il Guardian, Empire e The Observer. Questo articolo è stato pubblicato il 10/01/2022 sul Guardian ► Oscar-winning Iranian director Asghar Farhadi: ‘Global recognition is double-edged’ | Traduzione di Serena Mannucci
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