Il ricatto del dolore
Su Cafarnao di Nadine Labaki e l'estetizzazione del dolore nel film premio della giuria a Cannes
Cafarnao è forse una delle pellicole più apprezzate alla 71a edizione del Festival di Cannes, con il Premio della Giuria alla regista e attrice libanese Nadine Labaki, conquistandosi poi un posto fra i primi cinque candidati agli Oscar 2019 come miglior film straniero. In una città dai muri incrostati, dominata dai rumori del traffico e dalla totale indifferenza di tutto e di tutti, troviamo Zain (Sahar Cedra Izam) condotto in un tribunale di Beirut in stato di detenzione per un grave reato. Paradossalmente è lui ad aver chiamato in giudizio i suoi genitori con l’accusa di averlo messo al mondo. La storia è quella di un fratello che vuole a tutti i costi difendere la sorella da un matrimonio combinato, privato di qualsiasi senso logico se non quello di una totale sottomissione passiva ai genitori. Zain non riesce a comprendere tutto questo e si dimostra deciso a non piegare la testa cercando così di escogitare ingegnose strategie di sopravvivenza: nel suo intimo è perfettamente consapevole delle ingiustizie che è costretto a subire e pertanto è deciso a ribellarsi. I genitori che ha avuto, o piuttosto che non ha avuto, non sono stati in grado di dargli dei modelli di riferimento, eppure si ritroverà a fare da padre, a sua volta, a un bambino che ancora viene allattato.
Sono moltissimi i cafarnao nel mondo: in Italia si chiamano baraccopoli, in Francia bidonville, in Brasile favelas, in Inghilterra slum
Sono moltissimi i cafarnao nel mondo: in Italia si chiamano baraccopoli, in Francia bidonville, in Brasile favelas, in Inghilterra slum. Le periferie del mondo, agglomerati di abitazioni precarie nelle quali gli abitanti più che viverci sopravvivono e dove, purtroppo, si trovano moltissimi bambini. In Libano questi agglomerati sono situati specialmente nel sud del paese, dove secondo alcune stime si parla di due milioni di persone letteralmente invisibili perlopiù al di sotto dei dieci anni, costrette a vivere totalmente prive dei servizi essenziali. Nadine Labaki al suo terzo lungometraggio conferma così, ancora una volta, una profonda empatia verso tutti coloro che sono obbligati ad affrontare situazioni di disagio. In quest’ultima opera decide però di abbandonare i toni della commedia per immergerci, piuttosto, nella dimensione del dramma che ha come protagonisti un minore e una società; una società che non necessariamente ha sempre la responsabilità di ciò che accade ma che, realisticamente, non ha alcuna cura verso coloro che ne avrebbero maggior bisogno.
Cafarnao è un termine che definisce un luogo pieno di confusione e disordine, così come la pellicola della regista che vi immette tutti quei temi che voleva trattare: l’infanzia maltrattata, il ruolo genitoriale, la necessità di possedere dei documenti per essere considerati esseri umani e come tali ricevere attenzioni. Da tutte queste tematiche è nato un film che trae spunto dall’insegnamento del neorealismo nella sua connotazione più moderna, quella cioè del cinema dei Dardenne. Basti pensare, in primis, alla scelta attoriale dove ognuno pare abbia subito quella che è possibile definire come un’esclusione sociale durante la sua esistenza. La regista ci obbliga a confrontarci con questioni complesse e ci costringe a porci, costantemente, degli interrogativi.
Nadine Labaki usa in modo brillante la camera a mano e un montaggio capaci di accompagnare il racconto nella sua descrizione naturalistica, ma perché poi il rallenti e la musica ad archi che estetizzano la miseria?
Se osserviamo il film dal punto di vista esclusivamente cinematografico, notiamo come la regista libanese utilizzi un linguaggio tecnico degno di attenzione, dall’uso brillante della camera a mano a un montaggio capaci di accompagnare il racconto nella sua descrizione naturalistica. Sorge però spontanea la domanda: perché intervallare questo stile decisamente più realistico con l’uso del rallenti, inframezzato da musica ad archi con il chiaro intento di estetizzazione della miseria? Questi elementi creano delle evidenti stonature che fanno di Cafarnao un film ricattatorio con tonalità sfacciate, soprattutto di fronte a una messa in scena scontata e prevedibile. Per non parlare poi del protagonista Zain, capace di articolare discorsi con una dialettica decisamente improbabile per un bambino che non ha mai ricevuto un’istruzione.
L’idea del film è quella di mettere in scena tutte le disgrazie e le miserie del mondo: tematiche assolutamente degne di essere prese in esame, problemi che non devono, in alcun modo, essere né rimossi né tantomeno dimenticati. È necessario tuttavia distinguere fra quella che è una componente vera e reale da quella verosimile. Ci sono delle differenze fra questi due mondi delle quali bisogna prendere atto: la realtà andrebbe raccontata e non utilizzata a scopi manipolatori. Certo, altri registi fanno della manipolazione una vera poetica, basti citare Lars Von Trier; ma vedere più di metà pellicola dove si procede per accumulo di situazioni drammatiche e l'insistere sui primi piani e sulle disgrazie e le fatiche di due bambini mette, in fin dei conti, lo spettatore nella condizione di un’obbligata adesione emotiva, che risulta un atto ricattatorio.
L'accumulo di situazioni drammatiche e l'insistere sui primi piani e sulle disgrazie e le fatiche di due bambini mette, in fin dei conti, lo spettatore nella condizione di un’obbligata adesione emotiva
In Cafarnao c’è di tutto; lo stesso titolo, del resto, ne preannuncia gli ingredienti che lo comporranno: bambini maltrattati, spose bambine, carcere minorile, baraccopoli, immigrazione clandestina, il sogno di raggiungere l’Europa e il traffico di minori. Un bel condensato, o per meglio dire un vero cafarnao di due ore dove si possono ritrovare riassunti quelli che sono i mali del mondo. Tutto pare determinato da un occhio che guarda dall’alto, come quello dei tantissimi usi dei droni impiegati nel corso del film che si allontanano dal singolo per riprendere il quartiere da lontano, distanziandosi tramite una scelta estetica, incorniciando il tutto in una chiave evidentemente politica. Certo sappiamo della situazione di bambini costretti a crescere troppo in fretta, della realtà delle spose-bambine o dei carceri minorili, ma allo stesso tempo queste tematiche, talmente degne di attenzione, nell’analisi registica sembrano arrestarsi. La Lebaki rimane come bloccata, decidendo di non osare cadendo nel banale e nel prevedibile. Pare dirci: “se c’è gente che muore di fame è perché il mondo è ingiusto, chi è al comando complotta tenendo all’oscuro tutto e tutti dei suoi piani ricattatori e manipolatori”. La regista sceglie però di non indagarli, ma di mantenere il segreto non rendendosi conto che così facendo, fa lo stesso gioco di coloro che vorrebbe denunciare.
Il grande peccato è che il film rimane una vera bomba emotiva, un’opera che fotografa molto bene una dura realtà, complici i colori di Christopher Aoun e il montaggio serrato e organico di Konstantin Bock e Laure Gardette. E la cura dietro alla realizzazione della pellicola rende ancora più duro accettare l’intero assetto che si è deciso di intraprendere. Se da un lato, infatti, si decide di mettere in piedi una perfezione del reale con muri rovinati, immondizia in ogni angolo e bambini piangenti, dall’altro risulta inaccettabile costringere il pubblico a sottostare alle regole del mercato che guardano più alla logica del mero guadagno. Certe giurie inoltre, tendono a uscire da un’attenta analisi critico-professionale perché distratte e più impegnate a guardare il facile coinvolgimento emotivo. Quel che resta, ancora una volta, è lo sfruttamento degli sfruttati: un film in cui non si lavora per loro, ma si lavora con loro. Una visione costruita a tavolino, per commuovere e costringere lo spettatore a sentirsi in colpa verso situazioni sociali che, messe in scena in questo modo, creano soltanto compassione.
Il tipo di cinema che ne deriva è interessato più a preservare le apparenze, non guarda alla sostanza, tende al politicamente corretto, smette di interrogarsi, dimentica l’autocritica, annulla il ragionamento sul rappresentato e su come lo presenta. Il risultato è quello di un cinema ipocrita che simula virtù, facendosi portatore di buoni sentimenti o azioni; guadagna forse così la simpatia del pubblico ma, alla scorrere dei titoli di coda, quel che ne rimane è il nulla più assoluto. Cafarnao incarna il caos dell’oggi, le urla, il comizio e quell’inutile “bla bla bla” del mondo attuale.
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