Il re senza seggio

Rifiuto dell'Arabia Saudita di sedere nel Consiglio di Sicurezza ONU e sue ragioni

Lo scorso 18 ottobre l'Arabia Saudita ha annunciato l'intenzione di rifiutare il seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ottenuto dopo due intensi anni di lobbying e campagna elettorale. L'Ambasciatore saudita Abdullah al-Mouallimi ha dovuto interrompere le celebrazioni per l'elezione del suo paese dopo un ordine perentorio proveniente da Riyadh, espressione della volontà del sovrano saudita. Questa mossa improvvisa, decisamente insolita per i modi regali e ponderati della diplomazia del paese, ha sbalordito la stessa classe diplomatica saudita che oltre ad aver profuso grandi risorse nella campagna e per la raccolta dei voti, aveva impiegato gran parte dello scorso anno ad addestrarsi per i nuovi doveri politici e procedurali richiesti dai lavori del Consiglio di Sicurezza. Il rifiuto è particolarmente spiazzante specialmente se si considera che si trattava della prima elezione dell'Arabia Saudita al Consiglio di Sicurezza, nonostante il paese sia tra i fondatori delle Nazione Unite e quindi membro dal 1945.
Al momento comunque il Segretario Generale non ha ricevuto alcuna comunicazione formale della rinuncia saudita, quindi molto dipenderà dal linguaggio utilizzato dalle prossime comunicazioni dei diplomatici dell'Arabia Saudita. Tralasciando il dilemma procedurale su come trattare questa situazione inedita (tra l'altro nella probabile eventualità di una nuova votazione già Kuwait, Qatar e Giordania hanno espresso la volontà di candidarsi), è importante fare luce sui motivi che hanno portato i sauditi ad esibirsi in questo gesto altamente drammatico sotto gli occhi della diplomazia e dell'opinione pubblica mondiale.

Il principe Saud Al Faisal, ministro degli esteri del regno, ha criticato duramente il fallimento del Consiglio di Sicurezza nel risolvere le gravi crisi che devastano il medioriente, non da ultima la guerra civile siriana. La frustrazione dei sauditi è relativa soprattutto al meccanismo con cui l'organo opera, sottoposto al volere politico dei membri con potere di veto, e quindi soggetto agli interessi di questi più che alla necessità di mantenere la pace o risolvere i conflitti in corso. La Russia in particolare ha bloccato negli ultimi due anni praticamente qualsiasi attività del Consiglio finalizzata ad un intervento della comunità internazionale nella guerra civile siriana, principalmente allo scopo di proteggere il suo alleato, il presidente Bashar al-Assad.
Il quasi nonagenario re Abdullah ha dunque bloccato la partecipazione del suo paese al Consiglio di Sicurezza, in attesa di una non meglio chiarita riforma di quest'ultimo, nelle parole del principe Saud Al Faisal: «Il meccanismo di lavoro e i doppi standard del Consiglio di Sicurezza impediscono a questo organo di assolvere i suoi doveri e di assumere le sue responsabilità nel mantenimento della pace nel mondo», «dunque l'Arabia Saudita non ha altra opzione che declinare la sua partecipazione al Consiglio di Sicurezza finché non sia riformato e dotato dei mezzi necessari all'assolvimento dei suoi compiti».

Tuttavia secondo molti osservatori la vera ragione che ha portato il re Abdullah ad ordinare questo dietrofront non è tanto la frustrazione verso l'operato del Consiglio di Sicurezza, ormai annosamente impotente in tante gravi situazioni internazionali (dalla questione israelo-palestinese alla sanguinosa guerra civile siriana), quanto invece l'evoluzione del rapporto con lo storico e potente alleato del regno sunnita, ossia gli Stati Uniti.
Come ha eloquentemente scritto Max Fisher dalle colonne del Washington Post, gli interessi comuni che hanno a lungo tenuto insieme l'operato dei due paesi in medioriente si stanno disgregando. L'Arabia Saudita è la roccaforte del potere sunnita del mondo arabo, in quanto tale è costantemente in lotta con le forze sciite, sia statali che non. Così i sauditi hanno sempre perseguitato organizzazioni come i Fratelli Musulmani e contrastato entità non-statali come Hezbollah e stati rivali come la Siria e soprattutto l'Iran. La base dell'alleanza con gli Stati Uniti è sempre stata la fornitura di petrolio e l'acquisto di grandi partite di armamenti a stelle e strisce, in cambio della presenza e dei muscoli americani nella regione, ma alcune scelte della politica estera americana durante l'amministrazione Obama hanno cambiato la percezione dei sauditi riguardo la serietà e l'impegno degli americani nel coinvolgimento militare nella regione. In primo luogo il colpo di stato militare in Egitto, che lo scorso luglio aveva rovesciato il governo guidato dai Fratelli Musulmani, era stato ben accolto e largamente supportato dagli aiuti finanziari sauditi mentre Washington, sudata e stretta nel colletto, prendeva timidamente tempo e riduceva gli aiuti all'esercito egiziano. Un altro durissimo colpo per i sauditi sono state le prime mosse verso un riavvicinamento tra Usa e Iran, l'arcirivale regionale del regno e la roccaforte del potere sciita. Anni di pazienti sforzi nel sostenere e rafforzare un fronte anti-iraniano potrebbero andare adesso in fumo, con il conseguente ridimensionamento della posizione strategica dell'Arabia se l'Iran venisse riabilitato agli occhi dalla comunità internazionale, specie dopo un accordo sull'interruzione/trasparenza del suo programma nucleare.

Sorvolando sulla frustrazione saudita nella questione del riconoscimento palestinese e le pressioni perché Israele faccia outing sul suo arsenale atomico, la scintilla che ha scatenato l'ira del re Abdullah è stata senza dubbio la questione siriana, in particolare il fallimento americano nel punire il presidente siriano Bashar Assad e il suo regime dopo l'oltrepassamento della tanto sbandierata “linea rossa” del presidente Obama, ossia l'impiego di armi chimiche. Non solo i sostenitori dei ribelli (ossia i sauditi) hanno perso così un'occasione d'oro per annientare Assad, ma la percepita codardia americana ha alimentato la retorica degli estremisti stile al-Qaeda, che da decenni professano l'infedeltà e l'inaffidabilità degli occidentali. Differenti jihadisti adesso minacciano di ottenere il controllo delle forze armate dei ribelli siriani, la cui ala moderata è stata assiduamente coltivata dai sauditi, addirittura allestendo centri di addestramento (con istruttori americani) sul territorio dell'Arabia Saudita.
Il bagno di sangue siriano è intollerabile per il regno sunnita tanto quanto la possibilità che Assad (sciita alawita) resti al potere, in virtù poi di un grottesco accordo tra Russia e Stati Uniti: proprio quegli Stati Uniti che invece di portare la loro democrazia in Siria con i missili Cruise, o imbastire una nuova desert storm targata Nazioni Unite, cedono al ricatto diplomatico russo per una soluzione  siriana e nel frattempo si intrattengono in storiche conversazioni telefoniche con il neo presidente iraniano. Non stupisce quanto questi risvolti stridano con gli interessi sauditi e non stupisce come, ad esempio, il principe Turki al-Faisal, ex capo dell'intelligence del paese, l'abbia crudemente ma efficacemente sintetizzato: «L'attuale farsa del controllo internazionale sull'arsenale chimico di Bashar sarebbe anche divertente se non fosse così palesemente falsa e pensata non solo per dare al Sig. Obama un'opportunità per tirarsi indietro ma anche per aiutare Assad a macellare il suo popolo».

Oltre ad essere una protesta per l'operato dello Zio Sam, la rinuncia al seggio potrebbe anche essere il segnale che i sauditi sono pronti ad intraprendere una politica più ardita e direttamente coinvolta nella regione, invece di rimanere invischiati nelle obbligazioni morali dei membri del Consiglio. Infatti, senza considerare le prevedibili pressioni ad interrompere il finanziamento diretto e l'addestramento delle forze ribelli, un seggio avrebbe significato soprattutto doversi sottomettere, ed approvare, le scelte dell'intesa russo-americana, ormai evidentemente inaccettabili dal reame. Inoltre l'Arabia Saudita sarebbe stata costretta a prendere una posizione politica chiara, probabilmente minoritaria e intransigente, rispetto a molte questioni delicate come il controllo del programma nucleare iraniano, il tutto davanti gli occhi di una comunità internazionale ormai esasperata dai conflitti settari nell'Islam e sempre più prona a bacchettare il regno per le numerose violazioni dei diritti umani.
Un posto al sole nel Consiglio di Sicurezza potrebbe essere dunque un vero autogol strategico, una limitazione della libertà di movimento e quindi per questo, nell'infinita saggezza del sovrano, considerato con tutta probabilità molto più dannoso rispetto al danno derivante dal capriccioso voltar le spalle alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale.
Certo, magari gli umili sudditi diplomatici sauditi avrebbero preferito esserne al corrente ed evitare così al loro paese questa figuraccia in diretta mondiale, ma d'altra parte in Arabia Saudita l'«obbedisco» deve essere ancora molto in voga.


Commenta