Il racconto dei racconti di Matteo Garrone
con Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly, Stacy Martin
L’ultima opera di Matteo Garrone, liberamente ispirata a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, si affida alla scrittura salvifica della favola a sfondo morale unita alla potenza visiva dell’immagine cinematografica. Adattato da tre racconti della raccolta del letterato barocco, La regina, La pulce, Le due vecchie, si muove in una linea narrativa che intreccia le tre storie nel finale, usando con coscienza strutture archetipiche a muovere i personaggi ed in perfetta consonanza con lo stile hollywoodiano d’inizio secolo, a dimostrazione del quale troviamo un parterre di attori di fama internazionale. L’ottavo film del regista romano racconta la bramosia di una madre regina (S. Hayek) per il proprio figlio fin dal suo concepimento, attuato tramite un articolato rituale che prevede il cuore di un drago marino, una vergine che lo cuocia ed il compiaciuto pasto della prelibata pietanza ad uso e consumo della regina, disposta a tutto pur di sentire la vita crescere dentro di lei. Sempre la bramosia muove un re di un reame più lussurioso (V. Cassel), che tanto ricorda il Carlo Martello di De André, anch’egli alla ricerca di giovani donzelle, si farà ingannare da una vecchia megera che dopo aver ricevuto in dono gioielli, senza mai essersi mostrata al re, con pronta accortezza riuscirà ad infilarsi nel suo letto, protetta dal buio della stanza che a volte le donne richiedono in siffatti contesti. Tuttavia arriverà la luce del mattino a rivelare l’inganno e a lanciare la sprovveduta donna incontro alla sua vera sorte. Ultima sorte toccherà a un re e padre ignavo (T. Jones), il quale, incurante dei desideri amorosi della propria figlia, si preoccupa più di nutrire una pulce, da lui trovata e conservata in uno scrigno di vetro. Questa crescerà fino all’inverosimile ed una volta morta verrà scuoiata e la pelle appesa nella sala principale del castello, dove secondo le regole di un torneo vari pretendenti alla mano della regina dovranno indovinare da che animale proviene quell’enorme drappo. L’unico a vincere, grazie al suo poderoso fiuto, sarà un orco.
L’autore di Gomorra mette in scena una produzione fantasy dai toni cupi e cinici, violando quella dichiarazione d’intenti che per sua stessa ammissione è meta del suo cinema, quell’intreccio di realtà e finzione su cui il regista era abituato a riflettere nelle sue pellicole: dispositivo filmico che emerge in maniera suggestiva ne L’imbalsamatore e che giunge esplicito in Reality. Sembra che questa volta Garrone abbia oltrepassato quel limbo tra sogno e realtà, quella culla ipnotica che apre le porte alla fantasia, simile alla sensazione che si ha nel dormiveglia, quando la coscienza pian piano perde l’appiglio al reale e le fantasie portate dal sonno si mischiano ai ricordi della giornata vissuta; oltrepassato quel confine misterioso si sprofonda nell’inconscio, nel territorio dell’Io e del pensiero. Con l’ausilio delle convenzioni che un genere comporta, il regista si sposta nel territorio del fantastico e ciò gli consente di esplorare temi, concetti e comportamenti che sebbene idealizzati hanno un mordente molto più critico sulla realtà in cui l’opera è prodotta, già d’altronde il riuscito intento dell’opera di Basile. Per fare ciò, per optare una scelta che sposti il peso della bilancia a favore di un cinema più artificioso e proprio per questo più reale del reale – dinamica che tanto cinema italiano sembra essersi dimenticato – è necessario un atto di violenza. Un atto rivolto contro se stessi, per distruggere le proprie convinzioni e rifondare i propri argomenti. È la violenza della metamorfosi, del cambiamento, una forza distruttiva e generativa allo stesso tempo, una forzatura che il negromante richiede a Salma Hayek per poter proteggere il suo bambino e trasformarla così in un mostro dalla forma di pipistrello.
Un’opera in ogni caso autoriale, una cifra stilistica che non tradisce la consuetudine e la personalità del regista, coadiuvato da un’altra grande personalità del cinema d’autore che risponde al nome di Peter Suschitzky, direttore della fotografia di David Cronenberg, tornato ai fasti visivi cui ci ha abituato dopo l’inusuale parentesi di Maps to the Stars. Cinema d’autore che emerge sin dalla scelta del testo di Basile, non propriamente il classico viaggio dell’eroe fantasy, e dall’ardita decisione di legare tre storie in un unico film, mantenendole comunque in dimensioni separate per legarle soltanto nel finale. Un finale che tuttavia sembra proprio non esserci, poiché anche se riesce a distendere la tensione dopo un colpo di scena particolarmente avvincente, non fornisce una vera e propria chiusura alla storia, lasciando il pubblico in sala piantato sulle poltrone durante i titoli di coda, come interrotto, ancora in attesa di vedere la fine del film; e ciò anche a causa dell’eccessiva confusione con cui sono state portate avanti e concluse alcune storie, risolte a volte in modo poco limpido e alquanto precipitoso. Tuttavia non basta certo questo per deprecare un film dalle innumerevoli lodi visive, merito anche dei bellissimi paesaggi italiani e di una messa in scena che riesce a distanziarsi dal solito fantasy di cassetta, portando in alto il nome del cinema italiano nel panorama internazionale.
«È necessario un atto di violenza»
ITA-UK-FRA 2015 – Fantastico, Dramm. 125’ ***
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