Il Polanski entomologo di Cul-de-sac

Roman Polanski e il suo cinema da camera

Una strada deserta, tralicci a perdita d’occhio, un’auto nera in lontananza. Due malviventi: uno spinge la macchina a fatica, il braccio destro fasciato e la fronte madida di sudore, l’altro è seduto al volante con un buco nello stomaco e un mitra a puntellargli la schiena. L’inizio di Cul-de-sac è folgorante, un campo lungo e un punto nero che si avvicina, un’apertura degna dei classici del noir americano, e la partitura jazz di Krzysztof Komeda a richiamare le atmosfere della nouvelle vauge. Un neo che rompe la calma piatta e annoiata del matrimonio di George e Teresa – l’uno di mezza età agiato e femmineo, l’altra giovane mantenuta e fedifraga –, proprietari del castello dove il corpulento Dickie, il gangster col braccio fasciato, va a trovare rifugio. Mentre il malvivente si introduce nelle stanze della coppia, la strada e i tralicci, l’auto rubata e il compare seduto all’interno, vengono lentamente sommersi dalle acque, in una sequenza di grande suggestione e impatto visivo. Non è un artificio scenico, succede davvero nella Holy Island di Lindisfarne, nel Northumberland, nord est della Gran Bretagna, che l’alta marea separa due volte al giorno dalla terraferma. L’isola tidale – da tide, marea – diviene cornice non soltanto metaforica della storia, rinchiudendo le vicende dei personaggi nel perimetro della rocca. Come nel precedente Il coltello nell’acqua, dove i Laghi Masuri isolavano la barca dei protagonisti, è ancora l’acqua a tagliar fuori i personaggi dal mondo esterno, facendo della coppia un trio.

Marito e moglie affrontano l’irruzione come ogni altro problema familiare, in maniera fredda e distaccata, senza reagire se non con rare e timide opposizioni. Dickie scardina pistola alla mano la coppia borghese inserendosi come terzo vertice di un triangolo dalle forze variabili, esaltando i contrasti e spingendo all’esasperazione il rapporto già incrinato dai continui tradimenti. La voce imperiosa e rauca di Lionel Stander con il suo Dickie s’impone come elemento maschile all’interno delle dinamiche coniugali del George di Donald Pleasence, che al momento dell’irruzione è intento a vestirsi da donna e farsi truccare dalla moglie, la Teresa di Françoise Dorléac, sorella maggiore di Catherine Deneuve. Il Polanski entomologo studia i propri personaggi usando la propria lente come vetrino, mettendo in scena un dramma con toni grotteschi che nelle relazioni geometriche tra i personaggi ha la forza dei grandi drammi giudiziari, uno su tutti il gioco di vertici de La parola ai giurati con cui condivide la forte riflessione sociale. Nel «film più cinematografico che abbia mai fatto», scritto a quattro mani con Gérard Brach – autore anche per Ferreri, Annaud, Antonioni e Risi negli anni a venire –, il regista polacco riflette ancora sui rapporti tra la barbara genuinità dell’uomo comune e le incrinature che questa porta a contatto con le istituzioni borghesi, in un fulgido esempio di quel cinema da camera che prediligerà per gran parte della sua carriera.

Se Polanski sembra rifarsi alla regia di Welles nello sfruttare la continuità di ripresa per esaltare le prove attoriali, opposto è il suo uso della macchina da presa: da una parte i movimenti barocchi e scenografici del regista americano, che indaga la messinscena e penetra gli spazi con plastica autonomia, dall’altra la scabra e statica drammaticità dell’autore polacco. La sequenza in spiaggia, intorno allo scoccare dell’ora, ne è una prova eloquente. Otto minuti di elegantissimo piano sequenza, filmato da Polanski «nell’ora magica che precede il crepuscolo», in cui la macchina da presa, umile, si consegna ai movimenti degli attori. Dickie e George in primo piano, a dividere la bottiglia di vodka di Teresa, distesa dietro di loro sulla sabbia in accappatoio, pronta per un bagno in mare; alle loro spalle, incombe nero il castello. Teresa si tuffa in acqua, e prima che riemerga George si toglie la maschera con il suo sequestratore e nuovo sodale: confessa il suo amore sconfinato per la moglie, nonostante i continui capricci, e tutto il suo odio per la fortezza che il matrimonio ha reso prigione – i personaggi si allontanano e lo sguardo di Polanski, autonomo per la prima volta nella scena, si posa sul castello, che nasconde «qualcosa di molto strano, di inesprimibile, di ripugnante». Qualcosa che scatena il fiammeggiante finale, in cui mentre un folle e logorato Donald Pleasence si raccoglie in posizione fetale Françoise Dorléac fugge a bordo di un’auto con il nuovo amante. E proprio sulla sua auto, a due anni dalla fine del film, l’attrice francese troverà la morte, con un’incidente nei pressi di Nizza dove la Renault che guidava si ribalta e prende fuoco, come la macchina di George abbattuta a colpi di mitra da un gangster in un rogo notturno.


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