Il paradigma delle flatulenze
La democrazia del gabinetto tra le 'scorregge' di Aristofane e i divini bisogni di Kim Jong-un
Napoleone Bonaparte, imperatore con velleità da psicologo, riteneva che il passo dalla tragedia alla commedia stesse nel semplice atto di “sedersi”. La manifestazione della corporeità dell'essere umano, poggiato sul piano che esprime i suoi bisogni fisiologici – il sedere –, ha la capacità di infrangere ogni austerità tragica. Il generale Gaspard Gourgaud, uomo fidato di Napoleone, dal quale aveva ottenuto il titolo di barone per avergli salvato la vita nella campagna di Russia, raccolse le sue memorie nel Giornale inedito di S. Elena, nel quale riporta il ricordo dell’imperatore circa un colloquio con la regina di Prussia dopo la battaglia di Jena:
Essa mi accolse con un tono tragico come Chimene: Sire, giustizia! Giustizia! Magdeburgo! E si accingeva a continuare su questo tono, ciò che mi imbarazzava fortemente; così, per farle cambiare di tono, la pregai di sedere. Nulla spezza meglio una scena tragica quanto l’essere seduto; si passa subito alla commedia.
Certo rideremmo nel vedere il papa o Superman o il tragico Oreste, personaggi il cui ruolo impone integrità assoluta, che vanno in bagno e si calano i pantaloni. È un continuo contrasto, quello fra veste tragica e bisogni corporali, di cui la commedia si avvale costantemente da quando è nata, il che spiega come mai faccia sempre ridere, indistintamente dal proprio status culturale, l’immagine di una persona seria che nomini o produca flatulenze. Nel 423 a.C., in occasione delle Grandi Dionisie, vanno in scena ad Atene per la prima volta Le Nuvole di Aristofane, spietata derisione dei sofismi di Socrate che pare abbia indirettamente contribuito, vent’anni dopo, alla sua condanna a morte. Nel prologo, il povero contadino Strepsìade, vessato dai debiti per le scommesse perse dal figlio Fidìppide alle corse dei cavalli, discorre con un discepolo di Socrate, il quale gli rivela una delle ultime questioni approfondite dal maestro:
Cherefonte il calabrone
gli aveva chiesto come la pensasse,
se le zanzare cantan con la bocca
oppur col culo!
La produzione teatrale di Aristofane è impreziosita da un fornitissimo catalogo di peti e scorregge, nonché di sederi e genitali. Massima espressione di democrazia, ciò che esce dal nostro sedere o in qualche modo lo riguarda ci rende tutti uguali, tolti alle gerarchie, il potente come il povero, il santo come il farabutto. Totò trovava ‘a livella degli uomini nella morte, ma ancor prima, per il commediografo, usando in maniera onesta il termine migliore, sta nell’ovale del cesso. È questa la chiave della commedia: castigare indistintamente tutti sulla base di ciò che ci riduce ad uno stesso piano, acchiappare chi si crede migliore o diverso e metterlo a sedere, in fila con gli altri. In commedia, si sarà capito, l’eroismo rivoluzionario (positivo o negativo) del personaggio in crisi con la società non fa ridere, troppo movimento e troppo dispersivo, tutta materia del tragico. Ciò che invece, come una molla che il movimento detta e non disperde, prende quel rivoluzionario e lo riporta meccanicamente alla norma – la mazza del reazionario e del conservatore –, col ritmo sicuro e ben oliato di ciò che aggiusta e sa cosa vuole, fa esilarare da millenni le platee più disparate.
Nella fiaba danese I vestiti nuovi dell’Imperatore del 1837 scritta da Hans Christian Andersen, un re vanitoso passeggia nudo fra la folla indossando il pregiato vestito invisibile che due imbroglioni gli hanno fabbricato: un bel nulla fatto d’aria. È all’ingenuità di un bambino che viene affidata l’osservazione irriverente del parodista, colui che spoglia per mestiere, strumento del castigo scanzonato che Andersen vuole infliggere alla figura del potente. Mentre tutti lo guardano sfilare convinti di non essere in grado di vedere il vestito, il bambino esclama a gran voce che senza ombra di dubbio «Il re è nudo!». Cioè gli si vede il sedere. Allora quel re, che nella fiaba continua indisturbato nella sua marcia impudica mentre nessuno osa parlare, passa nella cultura occidentale come dispositivo di parodia del potente, per sempre spogliato dei suoi vestiti e ridotto a tutte le imperfezioni della sua natura. Esposto alla necessità di bisogni fisiologici e sessuali (l’esistenza dei genitali ne è la prova), diventa dunque avvicinabile, presente al tatto, materiale e deperibile, non così diverso dall’ultimo dei popolani. Diventa, insomma, qualcosa di cui ridere, firmando definitivamente la dichiarazione della propria fragilità. Il mantenimento del potere assoluto, specie quello religioso, si è sempre fondato anche sulla capacità di rendere immuni alle fruste della parodia gli uomini e i simboli che lo rappresentavano, necessariamente ben lontani dal riso e dalla commedia e calati austeri nella propria funzione. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, il venerabile Jorge è disposto a macchiarsi di numerosi delitti solo per evitare che si diffonda l’ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele, che del riso e della commedia tratta al pari della tragedia, poiché «il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede». La stessa rabbiosa paura che il terrorismo islamico ha provato di fronte al sedere e ai genitali di un deriso Maometto, opera dei vignettisti di Charlie Hebdo uccisi nell’attentato di Parigi dello scorso 7 gennaio. «Anche il Profeta è nudo!» hanno fatto notare dei parodisti, ma ridere di un simbolo è ancora peggio che bombardarlo. Perciò sono saltati in aria.
Secondo la biografia ufficiale di Kim Jong-un, seriosissimo e divino neodittatore della Corea del Nord, il giovane leader non avrebbe bisogno di orinare e defecare e non sarebbe dotato di foro anale: riuscirebbe a smaltire tutto internamente, tale è la mole di lavoro che svolge. Questo gli permette di risultare, agli occhi dei 24 milioni di nordcoreani che governa (di cui almeno 16 soffrono la miseria), una divinità da venerare. Nel 2014 esce negli Stati Uniti il controverso film The interview, diretto da Evan Goldberg e Seth Rogen, una commedia demenziale e dissacrante che figura un’intervista esclusiva a Kim Jong-un, in quei mesi deciso ad un attacco nucleare all’America, da parte dell’ingenuo e sconclusionato Dave Skylark (James Franco) e il suo più cauto produttore Aaron Rappaport (Seth Rogen), star della televisione spazzatura americana di cui il leader è appassionato spettatore. Contattati dalla CIA per convincerli ad avvelenarlo con della ricina una volta avvicinato nella sua casa di Pyongyang, e scongiurare quindi il rischio di un conflitto nucleare, i due protagonisti volano in Nord Corea per effettuare l’intervista, pronti a seguire il piano dei servizi segreti. La vicenda conduce Dave Skylark e Kim Jong-un a stringere, nei giorni precedenti all’intervista, una singolare amicizia che li porta a confessioni intime personali: il leader gli confida di avere un complesso di inferiorità nei confronti del proprio padre, Kim Jong-il, e di comportarsi in maniera autoritaria solo per imprimere credibilità alla propria leadership. Ma non solo: come Dave, adora ascoltare Katy Perry (le strofe Do you ever feel like a plastic bag / Drifting through the wind, wanting to start again? lo fanno emozionare come una teenager) e bere Margarita, anche se tutti la considerano una cosa da omosessuali. E, soprattutto, ammette di orinare e defecare come tutti gli altri. Si saprà poi che simili confessioni sono soltanto un modo per guadagnarsi la simpatia dell’ingenuo presentatore che lo avrebbe intervistato (pur con domande preparate), ma alla fine gli si riveleranno fatali in diretta, durante la quale – scoperto l’inganno e aiutato da Aaron e da una giovane propagandista del regime decisa alla rivolta – Dave lo metterà in ridicolo rivelando tutto e facendolo piangere a dirotto. Contro tutti i veleni, che avrebbero tolto di mezzo la carne di un dittatore ma non le sue vesti divine, e le accuse alla sua politica, che l’impreparato Dave non è capace di sostenere, l’arma più efficace per annullare il potere del Supremo Leader si rivela quella di renderlo umano agli occhi del suo popolo. Fa la cacca, beve cocktail frivoli, piange come un bambino: cose che non si addicono a un dio. Il film si conclude con l’inizio della rivoluzione. Non è un caso che l’immagine di un dittatore così seduto, in un film che declina la denuncia documentaristica in luogo di una semplice parodia, abbia suscitato l’allarme del vero Kim Jong-un, che ha minacciato attentati «in stile 11 settembre» nei cinema che lo avessero proiettato.
Soltanto nel 1980, lo riporta Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, si è saputo dal Sunday Times come morì il figlio minore di Stalin, Jakov Džugashvili. Internato durante la seconda guerra mondiale in un campo di prigionia tedesco insieme ad alcuni ufficiali inglesi, pare utilizzasse le latrine lasciandole in uno stato indecente. «Agli inglesi non piaceva vedere le loro latrine sporche di merda, anche se si trattava della merda del figlio dell’uomo più potente della terra. Glielo rimproverarono. […] Il figlio di Stalin non poté sopportare l’umiliazione. Urlando al cielo terribili ingiurie russe, si lanciò contro il filo spinato percorso dalla corrente elettrica che cingeva il campo di prigionia. Vi cadde sopra. Il suo corpo, che non avrebbe mai più sporcato le latrine degli inglesi, vi rimase appeso». Costretto, lui figlio del leader dell’Unione Sovietica, a difendere le sue feci davanti a degli inglesi, Jakov ha provato tutta la vergogna del potente ridotto ad uomo, e ancor peggio ad uomo sporco. Nel contesto tragico di un conflitto mondiale, lanciandosi contro il filo spinato come un eroe sofocleo per l'ignominia dei propri escrementi, ha costretto la storia a sedersi un attimo a considerare, fra le stime dei morti e le date delle invasioni, l’ironica comicità di una singola scena. A questa direzione si rivolge l’attività della commedia: trovare i punti deboli della storia e degli uomini, laddove è più facile slacciare loro la cintura, e svelare alle naturali vesti tragiche della realtà che è solo una questione di prospettiva. A pantaloni abbassati e carta igienica in mano, tutto può far ridere, anche la più immane delle tragedie.
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