Il nomade d'amore
La poesia del primo Ungaretti, ponte fra due secoli
Nel 1916 esce a Udine, in 80 copie numerate, Il Porto Sepolto, prima raccolta poetica di Giuseppe Ungaretti. L’anno prima Ungaretti parte volontario per il fronte sul Carso, e si trova allora nel bel mezzo dei combattimenti. La pubblicazione del libro è resa possibile dall’interesse di Ettore Serra, giovane poeta e ufficiale dell’esercito, che Ungaretti conosce in uno dei pochi momenti di distacco dalla trincea e cui decide di confidare il suo intimo rifugio poetico. Serra, colpito dai versi del nuovo amico, si adopera immediatamente affinché quelle parole, scritte su «foglietti laceri, buste, cartoline in franchigia, ritagli di giornale» e custodite nel tascapane, possano essere stampate su carta e abbandonare – almeno loro – i luoghi di guerra. Questa, in breve, la vicenda editoriale di un piccolo libretto (appena 32 componimenti) che avrebbe rappresentato il nucleo ispiratore di gran parte del Novecento poetico italiano, estendendo altresì la sua voce ben al di là dei confini nazionali.
Nel frattempo, la produzione letteraria in Italia si trova in una intensa fase di transizione. I momenti più alti del grande canto ottocentesco, i vari Carducci, Pascoli, D’Annunzio, vanno via via calando tra i sospiri dei crepuscolari – appendice malaticcia del decadentismo – e la turba violenta dei futuristi. Sono i primi vagiti di quella che la critica a lungo definirà, genericamente, poesia nuova: una genesi travagliata, oscura, per forza di cose accolta freddamente dagli ambienti idealisti e crociani. Come illustra egregiamente lo studioso Donato Valli nella sua Storia degli ermetici, il primo riscontro critico delle nuove prove letterarie di quegli anni «si caratterizza in prevalenza come affiorante coscienza della novità rappresentata genericamente dalla letteratura del Novecento, avvertita come fenomeno globale, cioè come manifestazione di una cultura e di una civiltà profondamente innovative rispetto alla tradizione ottocentesca. Se ne vedono confusamente i contorni, quasi per grandi masse profilantisi all’orizzonte critico, ma non si distinguono i particolari». E questa tendenza, ben lungi dall’interessare esclusivamente i primi decenni del secolo, durerà, a fasi alterne, fino al secondo dopoguerra, colpendo anche le nuove generazioni poi inquadrate nelle fila dell’ermetismo. Al di là di etichette spesso aeree, la crisi primonovecentesca è più chiaramente ravvisabile nelle opere dei suoi maggiori esponenti: che si tratti della disillusione dei Colloqui (1911) di Guido Gozzano, della ribellione giocosa dell’Incendiario (1910) di Aldo Palazzeschi, del furioso errare dei Canti Orfici (1914) di Dino Campana, i segni di un progressivo distacco sono più che mai evidenti.
In questo panorama confusionario vede la luce il Porto di Ungaretti. Il libretto si discosta da quanto scritto prima innanzitutto per l’aspetto del far poesia che, forse, più immediatamente risalta agli occhi del lettore: la metrica. Ungaretti rifugge il metro tradizionale per abbandonarsi totalmente ai versi liberi. Questo non costituirebbe, di per sé, un qualcosa di straordinario, se si pensa agli esperimenti che già Palazzeschi aveva tentato in tal senso, oppure alle «parole in libertà» di Marinetti e compagni. Attraverso l’emancipazione metrica, però, Ungaretti non si propone di conseguire gli intenti ironici, mimetici, del giocare coi suoni, né vuole giungere alla distruzione della parola, alla frammentazione eversiva tanto acclamata dall’avanguardia futurista. Al contrario, la nuova veste metrica permette al poeta di rendere la parola foneticamente e semanticamente autonoma, sì da carpirne il significato puro. Nella Introduzione di Carlo Ossola alla sua riedizione del Porto nella forma originaria, quella del 1916 appunto, il critico e filologo piemontese osserva intelligentemente che «spezzare il metro significava, per Ungaretti, isolare la parola, la sillaba meglio, lasciarla vibrare – come straniata dal suo logoro uso quotidiano – nel vuoto metrico, nello iato della distassia, come fosse pronunciata per la prima volta, come se tornasse, secondo la lezione di Mallarmé nei Mots anglais, giacimento fossile, “scavo” nel significante sino al “porto sepolto” di una lingua primigenia, incontaminata. Di lì soltanto la “meraviglia” dell’inaudito». Parola ridotta ai minimi termini, dunque, scandita per sillabe e, più a fondo, per significanti. Tentativo di sottrarre il segno grafico alla corrosione inquinante cui è soggetto fin dal momento in cui la mano avvicina la penna alla pagina. Il canto, anzi meglio, la «cantilena» poetica si «disperde» a ritmi nuovi, vergini, senza punteggiatura, sfuggendo dalle mani del poeta nell’attimo stesso della gestazione proprio per preservare la sua condizione di primitività, di elemento mistico. Lo stesso Ungaretti chiuderà la raccolta rendendoci partecipi di questa particolare immersione nel verso. L’ultima strofa dell’ultimo componimento (Poesia) difatti recita così: «Quando io trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso».
Le immagini del Porto, sebbene testimonino i debiti contratti con le produzioni crepuscolari e futuriste di poco precedenti, rendono conto della natura itinerante della poesia ungarettiana e ben giustificano la portata della sua carica evocativa. La raccolta è attraversata da linee espressive multietniche, che possono benissimo tratteggiare il profilo delle oasi egiziane come quello del territorio carsico, teatro del primo conflitto mondiale. D’altra parte, la biografia stessa di Ungaretti ci riporta le numerose realtà cui si trova a contatto sin dal primo periodo della sua vita, gli anni che precedono il Porto: nato ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi, emigrati per prendere parte ai lavori del canale di Suez, riceve la formazione scolastica superiore in un istituto francese rimanendo, allo stesso tempo, legato alla cultura italiana grazie all’amicizia con personaggi del calibro di Enrico Pea e ai suoi contatti con la rivista fiorentina La Voce. Prosegue gli studi a Parigi, dove frequenta i corsi del filosofo Henri Bergson alla Sorbonne e stringe amicizia coi giovani del fervido movimento culturale della città: Apollinaire, Picasso, Braque e gli italiani Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Palazzeschi. Tutte queste influenze, assieme alle letture intraprese sin dall’adolescenza – in particolare Mallarmé e Leopardi –, confluiscono nel bacino di ispirazione del giovane Ungaretti. L’esperienza della guerra, come lui stesso ricorderà in seguito, sarà il detonatore che le farà esplodere sulla pagina. Si legga il viaggio introspettivo affrontato in una delle liriche più famose, I fiumi, posta a metà della raccolta: uno dopo l’altro – prima l’Isonzo, poi il Serchio, il Nilo e infine la Senna – i corsi d’acqua cari al poeta sono da lui posti a raccontare, tramite il ricorso al simbolo idrografico, il suo percorso di uomo.
Nomade, insomma, nella vita come nel tentativo poetico di ricongiungimento con l’assoluto, con l’universo. L’attenzione speciale alla poetica del «naufragio», quindi, non sfocia nell’evasione rassegnata, nella rinuncia alla vita. Ungaretti scava in se stesso, si immerge sì in un abisso spaventoso di memoria baudeleriana, ma torna in superficie, riesce a trattenere qualcosa di quella lingua primigenia emersa prima nel commento di Ossola, opponendo alle sconsolanti contingenze private e pubbliche del suo tempo brevi attimi di ottimismo incrollabile, spirituale. Ciò gli permette di attraversare e superare i fantasmi tardo ottocenteschi, sottraendosi al caos militante delle avanguardie. Non è un caso che la critica, e soprattutto le generazioni successive di poeti, lo abbiano innalzato a modello per il Novecento italiano, riservandogli un posto d’onore in cui sarebbe stato affiancato, poco dopo, da Montale. Il merito più grande di Ungaretti, sin da queste sue prime prove, è forse il suo distacco attivo dalla centenaria tradizione lirica italiana. Attivo perché, differentemente dai movimenti eversivi, l’opera di frammentazione – del verso come dell’io poetico – non è il tentativo di polverizzare quanto scritto in precedenza, bensì la ricerca, minuziosa e tutt’altro che improvvisata, con cui riportare ai suoi minimi termini d’essenzialità il canto poetico, per poi successivamente ricostruirlo alle necessità di un’epoca nuova. Ungaretti si rivela così un classico da porsi nella più che mai tradizionale linea che, partendo da Petrarca e passando per Leopardi, costituisce il nervo pulsante della lirica italiana.
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