Il mondo oltre la ragione
Su L’assurda evidenza di Francesco D’Isa, un diario filosofico per scoprire la meraviglia dietro i paradossi del reale
Scrivere implica sempre una serie di pressanti interrogativi. Nel caso della filosofia, questi assumono una forma peculiare, che deriva direttamente dalla natura della disciplina. A meno di non far parte di coloro che la società autorizza a essere chiamati filosofi – perché si appartiene al novero dei bestselleristi o a quello, quasi più ambito, degli strutturati in università –, ci si deve anzitutto confrontare con il motivo per cui si dovrebbe dare alle stampe quello che è il frutto delle proprie ricerche e riflessioni, quale beneficio potrebbero trarne i lettori o, ancor prima, quale interesse potrebbero avere nello scegliere questo e non un altro saggio tra le decine di migliaia pubblicate ogni anno. Una questione che ne nasconde un’altra: se sia opportuno condividere con altri la nostra personale urgenza di trovare risposte a ciò che ci anima e angoscia, e se sia possibile farlo con una forma scrittoria adeguata alla filosofia, disciplina che sembra richiedere un certo cauto distacco rispetto al piano biografico, nella (vana) speranza di raggiungere qualcosa come un’obiettività. Insomma, quale potrebbe essere il contributo squisitamente filosofico di una tale condivisione?
Nel suo L’assurda evidenza. Un diario filosofico (Tlon, 2022) Francesco D’Isa risolve tutti questi quesiti mettendoli in pratica nel modo che il titolo già rivela. La scrittura diaristica, sperimentale eppure non estranea alla storia della filosofia, crea un dialogo intimo tra autore e lettore, nella quale il personale biografico tesse una dimensione esistenziale in cui chiunque può ritrovarsi, perché muove dall’esperienza condivisa dello sgomento di fronte all’insensatezza del reale. L’esistenza ci pare, infatti, assurda ogni qual volta che la nostra domanda di significato, la nostra esigenza di ordine e controllo, si scontri con l’inestinguibile del vivente: la sofferenza.
Quando avevo diciassette anni, una grave malattia mi costrinse a una prolungata degenza e al prematuro confronto con la domanda: «Perché si soffre?». Da allora, nonostante la mia completa guarigione, quell’interrogativo ha avuto modo di ripresentarsi spesso. Durante il mio ricovero in ospedale, nella mia stessa stanza c’era una signora sulla settantina, che purtroppo morì in poco più di un mese. Era una donna intelligente, che non aveva potuto permettersi un percorso di studi, ma che per via della sua indole curiosa si perdeva di frequente in letture disordinate e in lunghe conversazioni con chi, a differenza sua, aveva avuto l’opportunità di formarsi sui libri. Quando scoprì che studiavo filosofia iniziò a tempestarmi di domande, a cui rispondevo per lo più con altri interrogativi. Nonostante la differenza d’età stringemmo subito amicizia e a distanza di anni mi rendo conto che fu proprio questo strano sodalizio a declinare la mia domanda al plurale: «Perché soffriamo?».
È proprio questo ampliamento della prospettiva dall’individuale al collettivo che permette all’autore di impiegare il biografico per guidare il lettore dentro un’argomentazione rigorosissima eppure, o meglio e quindi inevitabilmente, assurda. L’assurdità, che nel testo è avvicinata con progressione concentrica e sempre più lucida, è, infatti, quella del paradossale, di ciò che letteralmente è contrario all’opinione comune. Quest’ultima è figlia di una tradizione millenaria che ha visto nella ragione l’unico strumento del conoscere e ne ha riassunto il funzionamento secondo quella regola tanto nota da suonare perfino ridondante: il principio di non contraddizione, il quale prevede, parafrasando, che una cosa non possa coincidere con nient’altro se non con se stessa.
È evidente, appunto, che perfino per cominciare a smontare questa struttura è necessario procedere con altri modi rispetto alla pura e semplice argomentazione razionale. Come chiarisce lo stesso autore nell’esergo, un saggio non avrebbe potuto rendere in modo credibile ciò che pensa. Ecco una delle motivazioni più forti per scrivere in forma di diario aperto, di confessione condivisa. Un’altra ragione arriverà alla fine del libro, quando della nostra ragione e di molto altro avremo imparato a fare a meno. Dopo averci introdotto alle linee generali del percorso che compiremo insieme, D’Isa muove un primo passo decisivo nel constatare che tutto è relativo. Il suo confronto con lo scetticismo – inteso come messa in dubbio radicale e potenzialmente estesa a qualsiasi convinzione o esperienza – e con il relativismo – per cui non esistono verità o fondamenti assoluti – mostra come a tali forze disgregatrici resista, limpido e impavido, il fatto che ‘qualcosa’ esista. La linea argomentativa è quella percorsa da Agostino e Cartesio, per citare i due esempi più famosi, ma l’autore declina la sua certezza in modo ancora più minimale, incorporando e non negando la lezione scettica e relativista, cui concede non che l’unica verità sia la mancanza di verità (assolute), bensì che ogni verità sia tale relativamente al criterio con cui la si considera.
Emerge di conseguenza lo spazio per un secondo passaggio, quello per cui tutto è in relazione: qualsiasi cosa che esista deve esistere in relazione con qualcos’altro che ne riconosca l’esistenza, o quanto meno ne permetta una definizione, tracciando così i confini che la separano da ciò che invece non è. Per renderci più agevole la visione di questa evidenza, l’autore ci aiuta a decostruire l’assolutezza dei nostri criteri percettivi, a partire dal richiamo all’esperienza della meditazione fino alla messa in discussione dei tre parametri fondamentali attraverso cui ordiniamo la realtà: lo spazio, il tempo e la causalità. In particolare, è la critica di quest’ultimo elemento a porre le condizioni per il superamento stesso del punto di vista individuale.
Considerare criticamente la causalità permette infatti di smettere di credere al nostro stesso potere causale e dunque alla nostra libertà, che potrebbe essere ben più evanescente di quello che riteniamo. A partire da qui è più semplice accogliere la possibilità che l’identità personale, e quindi anche l’identità di tutto ciò che esiste, non esista se non in relazione a qualcosa d’altro, che la percepisce e definisce. Se infatti provassimo a spogliare qualcosa di tutto ciò che lo mette in relazione con il resto dell’esistente ci troveremmo nelle mani un elemento molto diverso da quello di partenza: l’esempio, efficacissimo, di D’Isa è quello delle alte temperature che, private della sensazione di calore che le accompagna, sarebbero simili a ciò che noi descriviamo con questa espressione, ma non identiche (38° all’ombra senza sentirsi accaldati sarebbero davvero strani).
Condottici fin qui, l’autore ci invita a compiere l’ultimo passo che ci consentirà non solo di comprendere l’esistenza dell’assurdo, ma anche di accettarla e, anzi, di amarla. La relazione si è rivelata un tratto fondamentale dell’esistente. Considerandola più da vicino, emerge che la condizione necessaria e sufficiente per l’instaurarsi di una relazione è la differenza: è cioè indispensabile che due cose siano diverse per poter relazionarsi fra loro. Per questo motivo, se riconoscessimo che qualcosa non esiste ci troveremmo nella paradossale condizione di dover ammettere che in quanto non esiste non può nemmeno essere diverso da ciò che già esiste e quindi, per assurdo, coinciderebbe con esso, trovandosi nel contempo a non esistere e a esistere. Pur nello sforzo richiesto, l’argomentazione di D’Isa si mostra solida proprio quando sfalda tutte le nostre certezze, a partire da quella fondante per cui non possiamo ragionare per contraddizioni. Non solo possiamo, ma anzi dobbiamo, perché se esiste un mondo al di là del modo in cui lo percepiamo vuol dire che esiste un mondo al di là della razionalità e del principio di non contraddizione, un mondo che è tutto, ma anche nulla: un’assurdità, evidente.
Lungi dall’essere conoscenza fine a se stessa, la filosofia dell’autore diventa uno strumento, una livella del reale che rimette tutto in prospettiva. Tutto, anche la sofferenza
Ma la ragione che muove questo testo non è la volontà di sfoggiare virtuosismi o illusionismi dialettici, bensì quella, umana e onesta, di condividere un mezzo con cui far fronte alla nostra esistenza. D’Isa non costruisce una metafisica, un’ontologia o un’etica, ma ci racconta, con tutta la sperimentazione scrittoria di uno stile magnifico, come queste lo abbiano aiutato a trovare un nuovo modo per abitare questa stessa vita, questo stesso mondo, questo stesso corpo. Lungi dall’essere conoscenza fine a se stessa, la sua filosofia diventa uno strumento, una livella del reale che rimette tutto in prospettiva. Tutto, anche la sofferenza. Per lasciar posto a qualcosa come «una specie di innamorata meraviglia».
Ancor più in breve, essere esattamente qualcosa equivale a non essere tutte le altre cose, ma questa definizione rende impossibile non esistere, dunque se qualcosa esiste, esiste tutto. Questa idea, soprattutto in forma condensata, è poco più di un gioco di parole – ma quando viene vissuta assume un altro significato, che spero di trasmettere in queste pagine. La fine del mio ricovero fu l’inizio di un percorso che mi ha portato sempre più lontano, spinto dalla feroce gratuità del dolore, della gioia e dell’inesorabile bellezza che si cela al di là di essi. Simone Weil disse che «noi sappiamo per mezzo dell’intelligenza che ciò che l’intelligenza non afferra è più reale di ciò che essa afferra». Raggiungere questo confine è spossante, ma solo da lì ho potuto contemplare il dolore come un paesaggio, per riconoscervi, finalmente, qualcosa di nuovo.
In copertina immagine di cdd20 da Unsplash
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