Il mondo nella parola
Come il linguaggio determina la percezione - Il solito linguaggio
«È impossibile, in linea di principio, conoscere
gli elementi di ciò che è senza conoscere
i modi in cui si dice che è»
Aristotele, Metafisica
Negli ultimi anni molte ricerche antropologiche hanno mutuato dalle neuroscienze o dalle scienze cognitive i loro metodi sperimentali. Tra i tanti fenomeni umani indagati c’è anche quello della percezione dei colori. Le domande che hanno mosso i ricercatori sono state ‘Cosa sono i colori?’, ‘Vediamo tutti gli stessi colori?’, ed infine ‘Da cosa è determinata la percezione dei colori?’[1]. Quest’ultima domanda non prevede certo una sola risposta, ma tra quelle che sono state fornite ve n’è una sorprendente: il modo in cui chiamiamo i colori determina il nostro modo di vederli. I termini che indicano i colori, quelli che impariamo ad usare fin da quando siamo bambini, muovono il nostro cervello a vedere fisicamente i colori. Ma cosa accadrebbe se non avessimo un termine per dire il ‘magenta’?
C’è una tribù africana che con un solo termine indica le nostre sfumature di blu e di verde. Appunto, le nostre sfumature di ‘blu’ e di ‘verde’. In breve, con lo stesso termine gli uomini di quella tribù chiamano il ‘blu’ del cielo e la chioma ‘verde’ degli alberi. I ricercatori hanno allora deciso di portare avanti il seguente esperimento: su di uno schermo erano rappresentate una decina di caselle colorate, nove blu ed una soltanto verde. Mostrando questo insieme di caselle ad un membro della tribù, gli si è chiesto di indicare l’unica casella dal colore diverso dalle altre. L’uomo, tra lo stordito e l’imbarazzato, non capiva il senso della domanda: egli semplicemente non vedeva la casella verde tra le altre caselle blu. Solo dopo una quindicina di minuti ed un incredibile mal di testa, titubante l’uomo indicò la casella giusta.
Ora, lasciando da parte la conseguenza disarmante per cui i colori sono solo illusioni – o almeno, questa era la conclusione data dai ricercatori – e lasciando anche da parte i motivi fisiologici addotti per spiegare il fenomeno, concentriamoci su qualcosa di veramente incredibile: il linguaggio determina la nostra percezione del mondo. Non soltanto la coscienza, la conoscenza ed il pensiero, ma la percezione fisica delle cose.
Le cose stanno così: più parole abbiamo per definire i fenomeni, più la mente sarà flessibile nel riconoscerne le sfumature, le proprietà. Tutti coloro che almeno una volta hanno avuto tra le mani un manuale di sociologia o di linguistica, si saranno imbattuti nel famoso esempio degli eschimesi. Gli eschimesi infatti posseggono circa dieci nomi diversi per definire la neve, e ad ognuno corrisponde un diverso aspetto della neve. Ma per chi non vive in mezzo alle sconfinate distese artiche, sarà impossibile vedere le stesse sfumature di neve che vedono loro.
Ma come riesce il linguaggio a condizionare la nostra conoscenza della realtà? Spesso si sente dire che questo sia solo uno strumento per descrivere il mondo, o uno specchio che riflette le cose fisiche fuori di noi. Ma a giudicare dall’esperimento sopra riportato il linguaggio è molto di più: esso sembra essere la bussola, la guida naturale dell’uomo nell’universo.
Il problema è che siamo convinti del fatto che le parole siano etichette da incollare alle cose fuori di noi; solo quest’ultime sono vere, mentre le parole solo dei segni arbitrari. In base a questo pregiudizio ci convinciamo che la nostra conoscenza non dipenda dal linguaggio, o che questo non influenzi la nostra percezione.
Ma le cose non stanno così. Non possiamo intendere parola e mondo come indipendenti l’uno dall’altro. La nostra capacità linguistica, infatti, impregna ogni stadio della conoscenza, dalla percezione alla pura razionalità.
Ed è ancora una volta Aristotele a darci una diversa prospettiva. In generale i greci non avevano un termine corrispondente a quel che diciamo ‘linguaggio’. Però esprimevano insieme la capacità linguistica e quella razionale con il termine logos. Questo voleva dire sia parola/discorso, sia significato, definizione, senso, ragione. Nel logos pertanto era racchiuso sia il senso delle cose del mondo, sia la nostra maniera di coglierle. Per un greco «colui che conosce i nomi conosce anche le cose[2]». E così per Aristotele non era assolutamente possibile intendere i principi della natura senza avere dapprima scrutato le maniere in cui noi diciamo la natura. Le cose che esistono sono intese nella loro capacità di essere definite, e non solo come oggetti estranei al linguaggio.
Così, il nome di un colore non è un’etichetta che affibbiamo ad una cosa, ma è anche il segno della sua essenza. Quel che deve fare colui che ha intenzione di capire la realtà, è capire il modo in cui la lingua si struttura, portando a galla le connessioni logiche tra le parole. Perché il logos rivela quello che una cosa è, anzi è identico a quella cosa.
Pertanto, Aristotele non si sarebbe forse stupito davanti ai risultati dell’esperimento. Se il significato di ogni nome, infatti, racchiude l’essenza di qualcosa che è reale e contemporaneamente apre alla sua conoscenza, perché meravigliarci tanto del fatto che l’africano non vede il ‘verde’ se non ha una parola per dirlo? Le cose che non hanno un nome non possono essere conosciute.
Tutto questo ci rivela che il linguaggio non può essere solo capacità comunicativa, come alcuni pensano; né che le parole ed i nomi siano segni insignificanti. Il linguaggio sarà invece il carattere determinante dell’uomo, capace di organizzare tutte le sue attività conoscitive. Sembra che non ci sia nulla, infatti, né la percezione né l’intelletto, che il linguaggio non riesca a modellare. E così, nell’unità di parola, mondo e pensiero, l’‘animale linguistico’ scopre la sua autentica natura.
[1] Le presenti ricerche sono state programmate dalla BBC nella serie Horizon. Il titolo del documentario in questione è Do you see what I see?, ma sul sito web dell’emittente sono disponibili solo alcuni estratti.
[2] Platone, Cratilo, 435d 5-6.
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