Il matrimonio polacco

Una storia di vodka e nóżki w galarecie

7 aprile, ore 17.00. Un messaggio fa suonare la casella di posta. È Irene: «Sto per farti una proposta indecente, una mia amica polacca mi ha invitato al suo matrimonio. Sarà qualcosa di epico. Due giorni, due feste, piena tradizione polacca, delirio... potresti farci un film». Quando un’amica ti fa una proposta del genere, non puoi dire di no. Prenoto il biglietto, faccio i bagagli, saluto tutti come fosse l’ultima volta e mi imbarco per Varsavia. Atterrato a Modlin, nella navetta per la stazione incontro un torinese con due amici che mi racconta di essere già stato in Polonia, a Cracovia, e che ci è tornato perché qui i prezzi sono umani, la gente accogliente e “le ragazze non se la tirano come da noi”. Ci tiene a sottolineare che a lui non interessa fare niente, e che il suo viaggio non ha niente a che vedere con gli squallidi puttantour russi. Non gli credo del tutto. Arrivati alla stazione, è già a chiacchiera con la prima polacca scesa dal treno.
Dopo aver rischiato di finire a cento chilometri da Varsavia, due cambi e un totale di otto ore di viaggio arrivo a Łódź, la città della sposa e degli studi di cinema di Polanski, nella stazione di Widzew. Scendo dal treno insieme ad un’ottantina di persone, ma l’unico rumore che si sente oltre al sibilo del vento sono le ruote del mio trolley, che risuonano come colpi di pistola nella stazione silenziosa. L’atmosfera ricorda i bei tempi di Berlino Est. Mi vengono incontro Irene, accompagnata dalla coppia di sposi Anna e Pawel, e Kasia, la cui famiglia ci ospiterà per i giorni del matrimonio. Nel viaggio in auto il futuro sposo ci confessa il suo amore sconfinato per la lingua italiana, e con Irene ci troviamo a cantare a squarciagola l’inno di Mameli nel miglior spirito mondiale. Neanche il tempo di arrivare a casa e già una prima sconcertante rivelazione: Łódź, per una strana e incomprensibile serie di regole fonetiche, si pronuncia wooch. Mi rendo conto di aver fatto una figura ridicola con chiunque avessi parlato degli studi di Polanski, o forse di averla evitata.

Sopra la porta della bella casa con giardino nella periferia di campagna di wooch sventola la bandiera nazionale, per festeggiare i 25 anni di libertà della nazione polacca. Neanche il tempo di entrare che i genitori di Kasia ci accolgono con una bottiglia di ottima Żubrówka, vodka aromatizzata con l’erba di cui si ciba lo zubr, il bisonte europeo; un filo di quest’erba, per tradizione, viene messo nella vodka durante l’imbottigliamento. Mentre mangiamo la famiglia ci guida in una fitta selva di ferree regole per sopravvivere al matrimonio, che si possono riassumere in “Mangiate la zuppa”, “Eat fatty food”, e alla scoperta della lingua polacca, di cui l’unica cosa che riusciamo ad imparare è “Nóżki w galarecie”, la zampa di maiale in gelatina che da quella sera in poi non potrà mai mancare su qualunque tavolo. A quanto pare, i polacchi adorano la gelatina. Anche se non quanto la zuppa. Alla fine della cena, della Żubrówka rimane solo il filo d’erba.
 

Mentre mangiamo la famiglia ci guida in una fitta selva di ferree regole per sopravvivere al matrimonio, che si possono riassumere in: Mangiate la zuppa


La mattina, finita una colazione tra le cui pietanze, ovviamente, compare il nóżki w galarecie, è già tempo di vestirsi per il matrimonio. Andiamo a casa della sposa dove il padre ha imbastito una piccola prova per il futuro genero: un’accetta e dei piccoli pezzi di legno, adornati con fiocchi bianchi, spaccando i quali proverà di essere un vero uomo. Pawel ci riesce al primo colpo e quindi si può procedere con la benedizione della coppia, prima che la schiera di automobili, accompagnata dalla banda, abbandoni la casa in direzione della chiesa. Se pensate che la messa sia noiosa, provate ad ascoltarla in polacco. All’uscita della coppia le damigelle, che dovrebbero gettare petali di fiore colorati sugli sposi, sono dal lato sbagliato della chiesa – a loro discolpa, quello è solo il secondo di tre matrimoni e nella folla non si capisce bene chi è parente di chi –, ma con uno scatto da centometriste riescono ad arrivare prima che la sposa scenda l’ultimo gradino, lanciando petali come proiettili e salvando in extremis la situazione.

Ci sono tre polacche, due italiani, un ceco e un olandese. Non è l’inizio di una barzelletta, ma il tavolo internazionale a cui mi siedo una volta arrivato nella stanza a piano terra dell’hotel dove si svolge la festa nuziale. Nella fila per la consegna dei fiori e del vino, doni tradizionali per il matrimonio, abbiamo conosciuto i nostri futuri compagni di tavolo: un ragazzo olandese che si presenta dando della bastarda a Irene perché non è battezzata, un ragazzo ceco in gilet, che in un cliché alla Kundera non può che chiamarsi Tomáš, e le loro ragazze Ania e Ada. Tavolo sbagliato, decisamente. Nel giro dei primi cinque minuti i brindisi sono già sei, e la festa durerà altre undici ore. La ragazza alla mia destra, che ci tiene a versare la prima zuppa della serata a tutto il tavolo, mi aiuta a capire meglio quello che sta succedendo, senza troppo successo. “Na zdrowie” è l’unica cosa che capisco e “Nóżki w galarecie” l’unica cosa che so pronunciare. Con questo vocabolario, al massimo posso bere gelatina.

Tra un brindisi e l’altro si leva un coro di “Sto lat, sto lat, nyech zyje, zyje nam!”, un augurio di cent’anni di buona fortuna, cantato con le braccia incrociate con i vicini di tavolo, mentre le canzoni si intrecciano con la vodka e in un batter d’occhio ci troviamo a cantare strattonandoci da una parte all’altra e alzandoci e sedendoci sempre più velocemente senza alcuna apparente ragione. A salvarmi dall’ennesimo bicchiere di vodka ci pensa la banda, tastiera sax e chitarra elettrica, che comincia ad intonare un ballo tipico. Tutti in piedi nella pista e dopo qualche danza tradizionale anch’io, cercando di seguire i costumi locali, ballo (anche se sarebbe più corretto dire ‘mi muovo velocemente’) con insindacabili mosse alla Travolta. La serata prosegue a ritmi serrati in un alternarsi continuo di vodka, cibo, ballo, vodka, vodka, nóżki w galarecie, vodka, brindisi con la vodka, ballo, cibo, cibo, vodka, ballo, vodka, vodka, vodka e ancora vodka. Provo a stare al passo degli autoctoni, ma il divario è netto. L’olandese, esperto di matrimoni polacchi, ci aveva avvertito: “They will force you to drink”, vi forzeranno a bere. Lui è il primo a riempire a ripetizione e fino all’orlo i nostri bicchieri. “Non ho mai detto chi l’avrebbe fatto”. Aiutato dai nuovi amici polacchi, tento di far fede ad ogni brindisi, per prendere parte alla tradizione.
 

Se veramente conosci la tradizione, ogni tanto bevi metà bicchiere, mi diranno il giorno dopo. Troppo tardi


“Se veramente conosci la tradizione, ogni tanto bevi metà bicchiere”, mi diranno il giorno dopo. Troppo tardi. Dalle undici e mezza in poi i ricordi cominciano a farsi rarefatti, divisi in una serie di rapidi flash. Il primo dietro un angolo nel parcheggio dell’hotel, seduto per terra di fronte al muso di un’auto che mi guarda con rimprovero, con lo stomaco vuoto e un angelo custode di nome Filip al mio fianco. Il secondo mentre rifiuto una tazza di tè che cercano inutilmente di farmi bere, seduto su una panchina dove sono rimasto in condizioni pessime per più di un’ora, o almeno così mi dicono. Il terzo sul divano nell’atrio dell’hotel, dove abbiamo fatto delle foto assieme agli sposi. O almeno così mi dicono. Il quarto nel bagno della stanza d’albergo seduto in un angolo per terra accanto al lavandino, e questo lo ricordo benissimo, mentre Ania e Kasia cercano di convincermi ad andare a letto, per il mio bene. La mia risposta: “Sto benissimo qui”, seguita dalla frase “Sembrate molto più alte da quaggiù”, dopo cui se ne vanno entrambe sconsolate. Nella stessa camera, in coma profondo, il ragazzo olandese del nostro tavolo. Un paio d’ore prima, saputo che aveva lasciato la festa per andarsene a dormire, l’avevo deriso con un sonoro: “What a pussy!”. Sconfitto, mi getto sul letto di fianco al suo.

Al risveglio sono disteso pancia sotto, sopra le lenzuola, vestito. Sono le 4 e 33 e la festa non è ancora finita. Mi alzo, sorpasso il letto del compagno olandese caduto in battaglia e mi dirigo verso il bagno. Mi sciacquo il viso e, con grande nonchalance, scendo in sala per un ingresso trionfale con il completo perfettamente stirato dalla dormita di due ore. La sposa, fresca e lucida con ancora indosso il vestito a dieci ore dall’inizio del matrimonio, spalanca gli occhi e saluta il mio arrivo urlando “You’re alive!”. Filip, il mio angelo custode, mi saluta con un sorriso, felice che i suoi studi di medicina siano serviti a farmi superare la notte. Al giro successivo di vodka mi concedo un elegantissimo tè, bevuto con il mignolo alzato e l’aria distaccata. Finirà nel lavandino.
Sono le cinque del mattino e si balla ancora, in un divertito e sfiancante crescendo teso ad abbattere le ultime resistenze. Alle sei i sopravvissuti sono venti, immortalati nella foto di rito, tra cui si contano i genitori della sposa, vincitori morali della festa. Degli stranieri l’unico vero superstite è il ragazzo ceco, l’unico che ha resistito per tutto il party concedendosi soltanto un breve svenimento intorno alle tre e mezza del mattino, e che passa l’ultima mezz’ora a guardarmi facendo gesti inconsulti, tra l’ironico e il grottesco, in direzione di Irene, con cui scambio sguardi interrogativi e divertiti. Salutiamo tutti e lasciamo il salone per ultimi, prendendo per il ritorno un taxi guidato da un accigliato autista delle dimensioni di un’automobile, tanto che non si capisce bene chi sta guidando chi. Al nostro passaggio, il ragazzo ceco non ci risparmia un ultimo saluto di una volgarità non ben comprensibile che lo farà ricordare nei secoli. Mentre scivoliamo sulla strada bagnata cerco di leggere e decifrare con Kasia l’invito polacco alla festa dell’indomani (sì, le feste sono due) deciso a bere un po’ meno, per sopravvivere e per ricordare. Tutta la parte centrale della festa di oggi – la consegna dei regali, il discorso degli sposi, la torta nuziale – la vedrò soltanto nelle fotografie.

Mezzogiorno della domenica. Mi alzo un paio d’ore prima degli altri e scendo in salotto dove mi aspetta il padrone di casa, Jacek. “I know what you need”, mi dice nel suo perfetto inglese. E torna con una lattina gigante di birra ghiacciata. Alzo le mani, sicuramente è più esperto di me. La bevo tutta mentre parliamo di storia italiana e polacca, due ore in attesa di ripartire per la seconda festa, dalle quattro del pomeriggio alle dieci di sera. Arriviamo leggermente in ritardo, perché la famiglia Pacholik ci tiene a farci assaggiare quello che lì chiamano il gelato italiano, il Lody Włoskie (già, nel modo in cui i polacchi dicono “italiano” non c’è assolutamente niente di simile alla parola ‘Italia’). È un buonissimo gelato alla spina, mangiato in maniera simile a quella in cui noi mangiamo lo yogurt, con l’aggiunta di creme alla fragola o al cioccolato, probabilmente chiamato così perché in origine le macchine con cui veniva fabbricato erano italiane. Il fatto che da noi in Italia il gelato italiano praticamente non esista crea un attimo di interdizione.
 

Nel salone dell’hotel per la seconda festa, più sguarnito rispetto al giorno precedente, due cose non mancano: l’indistruttibile band e le infinite bottiglie di Wiborowa


Nel salone dell’hotel per la seconda festa, più sguarnito rispetto al giorno precedente, due cose non mancano: l’indistruttibile band e le infinite bottiglie di Wiborowa. Con la vodka ci vado piano, memore della lezione, ma in sala da ballo il gruppo regala a noi italiani qualche gioia, con una versione italo-polacca di Baila Morena e con Il ballo del qua qua, che cantiamo con Irene mentre in molti ci guardano confusi. Al nostro tavolo è tornato il ragazzo olandese, che probabilmente si è limitato a scendere le scale dalla camera in cui aveva perso i sensi. In un momento di pausa, vado a prendere una boccata d’aria sulla panchina che mi aveva ospitato la notte precedente. Accanto a me, una ragazza vestita d’arancio mi guarda e ride. “Tough weddings in Poland”, matrimoni tosti in Polonia, le dico. “Right, I saw you yesterday night”, e scoppia di nuovo a ridere. Ottimo, penso. È bello lasciare bei ricordi di sé in giro per il mondo.

Alla fine della seconda festa, la domenica sera, siamo rimasti in pochi a ripulire i resti di due giorni ininterrotti di matrimonio, e cibo e vodka vengono dispensati come se non ci fosse un domani. Mentre si porta via cinque bottiglie di vodka come ricompensa per averci sopportato, Kasia chiede a me e ad Irene se vogliamo vedere il centro di wooch. Ovvio, rispondiamo, e nel giro di dieci minuti siamo in macchina con i genitori della sposa, stracarica di carne, torte, vino, vodka e nóżki w galarecie. Ci lasciano vicino al centro, sotto una pioggia incessante che ci accompagna fino alla Piotrkowska, la strada principale intorno a cui la città di wooch è sviluppata. Tra una birra e l'altra passiamo per la Walk of fame polacca, che conta tra gli altri le stelle di Kieslowski, Wajda e ovviamente Polanski, mentre il diluvio si rifiuta di abbandonarci. Persino il giorno dopo, all’imbarco all’aeroporto di Modlin, la pioggia continua scrosciante. Salgo a bordo con in tasca due piccole bottigliette di Wiborowa, per ricordare un fine settimana memorabile e per sopportare le ore di viaggio. Al decollo l’aereo si stacca da terra e porta con sé un pezzo di cuore. Dopotutto il torinese aveva ragione, l’accoglienza della gente polacca sarà difficile da dimenticare. L’aereo sale lentamente oltre le nubi lasciandosi la pioggia alle spalle, e mentre il sole bianco filtra dai finestrini e illumina la superficie delle nuvole penso una cosa soltanto. Noi italiani non abbiamo capito niente di matrimoni.

 


Grazie ad Irene, Anna, Pawel, Kasia, Filip, Ania, Dagmara, Nico, Tomáš
e un grazie speciale alla famiglia Pacholik, che il nóżki w galarecie sia con voi


Click here for the English version


Commenta