Il massacro della porta accanto

Srebrenica, 20 anni dopo: anatomia di una strage

Correva l’anno 1992 ed ero in prima elementare. Nel mio paesino di provincia, Cervignano del Friuli, a venticinque chilometri dal confine con uno stato che da pochi mesi stavamo imparando a chiamare ‘Slovenia’, la gente era in fibrillazione: erano arrivati «gli Jugoslavi». Per decenni la mia regione era stata la testa di ponte dell’Occidente contro il blocco comunista. Un mondo chiaro, dove ogni cosa era al suo posto: si sapeva, qui in Friuli Venezia Giulia, che la cintura formata da una caserma ogni 15 km era una barriera in caso di invasione da Est. Proprio in quell’inizio di anni Novanta avremmo capito che le cose, in realtà, erano molto più complesse, ma le parole ‘Gladio’ e ‘Stay-behind’ suonavano ancora acerbe e proprio in quel 1992 l’Italia non prestava molta attenzione a ciò che accadeva dalle nostre parti, travolta com’era dalle notizie provenienti dalla Sicilia – l’assassinio di Falcone e Borsellino – e dalla Lombardia – le inchieste milanesi di ‘Mani pulite’.
Era autunno inoltrato quando alla porta della mia classe bussò una maestra circondata da bambini della mia età o appena più grandi: erano i famosi «Jugoslavi» che venivano a conoscerci. Ancora oggi non so di che nazionalità fossero veramente: credo bosniaci, ma forse in mezzo c’erano anche croati e serbi, uniti-divisi nel dramma di un conflitto insensato. Ricordo un silenzio che si tagliava con il coltello, nonostante i nobili sforzi delle maestre per farci ‘parlare’, non si sa bene in quale lingua. Eppure, quello fu un giorno decisivo per la mia vita: avevo sei anni, ma mi bastarono per capire che a pochi passi da casa mia si stava consumando una tragedia.

Cosa sapevo, allora, di quel mondo che iniziava a Nova Gorica e terminava al confine con la Grecia? Ben poco. Sapevo che «gli Slavi» – termine buono per tutti – erano stati nostri nemici, anche se il termine ‘foibe’ non faceva ancora parte del mio vocabolario; di qui la stupida ostilità che ci portavamo dietro quando andavamo a fare benzina «di là» perché il carburante costava pochissimo. Sapevo che parte della mia famiglia proveniva dall’odierna Croazia, da quelle leggendarie isole dalmate ancora mai viste se non in fotografia; sapevo che mia nonna si era sposata a Zagabria, negli anni Quaranta, perché mio nonno lavorava da quelle parti. Ma nel 1991, quando ero ancora all’asilo, quel mondo era già diverso dal racconto che ne ricevevo: la federazione jugoslava, tenuta insieme col pugno di ferro dal maresciallo Tito, aveva iniziato a frammentarsi per il riemergere dei nazionalismi primonovecenteschi. Il 7 luglio era nata la Slovenia, dopo una guerra di dieci giorni contro il vecchio stato centrale; pochi giorni prima, precisamente il 25 giugno, la Repubblica di Croazia aveva dichiarato la sua indipendenza, facendo scoppiare un conflitto che sarebbe durato fino al 1995. Una guerra confusa, con rovesciamenti continui e alleanze mutevoli: croati contro serbi con bosniaci neutrali; croati e bosniaci contro i serbi; croati e serbi contro i bosniaci; croati cattolici di Bosnia contro bosniaci musulmani (è in questo contesto che viene bombardato il ponte di Mostar); piccole repubbliche proclamate e poi soppresse; servizi segreti americani completamente disorientati in quel marasma di etnie, religioni, formazioni militari e paramilitari. E, a tirare tutti i fili, il gran burattinaio Franjo Tuđman, presidente della Croazia autonoma, ex generale comunista negli anni della resistenza titina e poi fiero nazionalista erede degli Ustascia, antisemita di ferro e amico della CIA: sarà riconosciuto criminale di guerra solo post mortem.

Alla fine del 1991, con le prime rivendicazioni autonomiste, era entrata in scena anche la Bosnia-Erzegovina, la regione più complessa dal punto di vista etnico, formata da una maggioranza bosniaca di fede islamica (i cosiddetti ‘bosgnacchi’: 44%), ma anche da un 17% di croati, da un 6% di nostalgici che nel censimento dello stesso anno si erano definiti, semplicemente, jugoslavi e soprattutto da un 32,5% di serbi rappresentati dal Srpska Demokratska Stranka (SDS) capeggiato da Radovan Karadžić, il cui progetto politico era impedire alla Bosnia di proclamarsi indipendente dalla Jugoslavia a trazione serba: intenzioni annunciate chiaramente fin dal 14 ottobre 1991, davanti all’intero parlamento di Sarajevo, in un discorso da antologia del terrore. Forte dell’appoggio del presidente della Repubblica di Serbia Slobodan Milošević, nel marzo 1992 la fazione di Karadžić dichiarò guerra alla neonata Bosnia-Erzegovina. Tre i fronti principali: Sarajevo, Tuzla e Srebrenica. Più vari campi di concentramento, come ai tempi dei nazisti, documentati da un agghiacciante servizio della BBC.

Nell’autunno del 1992, quando quei bambini bussarono alla porta della mia classe, la Bosnia-Erzegovina era già teatro di massacri terribili, ma per il segretario dell’ONU Boutros Boutros-Ghali le priorità erano altre: il giornalista Fouad Ajami, riferendosi all’operato (inesistente) di Ghali nei Balcani, parlerà di «Regno dell’Indifferenza» in un articolo durissimo, dove si leggono particolari incredibili. Come quando, il 31 dicembre 1992, il segretario ONU ebbe la faccia tosta di presentarsi in una Sarajevo assediata dalle truppe serbe del macellaio Ratko Mladić e dichiarare: «La vostra situazione è migliore di quella di altre dieci città in tutto il resto del mondo. Posso darvi una lista di dieci posti in cui ci sono maggiori problemi rispetto a Sarajevo». Peccato che alla fine del conflitto la sola capitale bosniaca conterà 12.000 vittime.
Appena il 16 aprile 1993 l’ONU decise di istituire la zona protetta di Srebrenica. Scopo della risoluzione n. 819: difendere i 30.000 bosniaci della valle (più i profughi che da quel momento sarebbero arrivati) dai 20.000 militari e paramilitari serbi attivi tutto intorno all’area. Come? Mandando a presidio della città un contingente di caschi blu canadesi, nel ridicolo numero di 150 unità, per giunta senza il potere di sparare, concesso solo per autodifesa alcuni mesi dopo. Pura sorveglianza, dunque, in una località circondata da nemici che controllavano tutte le vie di comunicazione, bloccando qualsiasi rifornimento: di cibo, medicinali, beni di prima necessità inviati dalla comunità internazionale. Così, a Srebrenica si arrivò a mangiare fieno, erba e la colla dei manifesti appesi ai muri; a inventare farine con qualsiasi cosa macinabile per fare il pane; a sgozzarsi fra conoscenti per un rifornimento di cibo lanciato dagli aerei della NATO (e talvolta erano scatolette scadute da trent’anni); a cadere mitragliati dai serbi nel tentativo di raccattare quei rifornimenti aerei; a contare i propri pidocchi; a subire amputazioni senza anestesia da medici sempre più impotenti; a passeggiare incuranti dei morti per le strade o appesi ai muri delle case; a non provare più alcuna emozione riferibile a ciò che definiamo ‘genere umano’. Si arrivò a vivere morendo ogni giorno un po’:


Ti sei lavato nel bagno buio. Di tutti i posti al mondo, pensavi, il buio scende prima di tutto a Srebrenica; di tutte le case in città, in questa; di tutte le stanze della casa, in bagno. Hai acceso la luce, ossia il lembo di uno straccio che spuntava da un contenitore di petrolio, e lo hai avvicinato allo specchio. Hai guardato il viso butterato, tutta la pelle flaccida che pendeva là dove una volta c’era del grasso. Hai aperto la bocca e hai visto i tuoi denti diradati. Ti sei messo la mano in bocca, hai cercato il traballante dente ingiallito sull’arcata superiore e lo hai tirato via. Dal buco che è rimasto non è uscito sangue. Sapevi che saresti morto. (Emir Suljagić, Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, Trieste 2010).

 

Neanche a dirlo, i 150 canadesi capirono subito da che parte tirava il vento; alcuni non persero l’occasione per stuprare le ragazzine bosniache fatte prigioniere e prostituite dalle forze di Mladić. In tutta la Bosnia, del resto, furono violentate 20.000 donne, molte delle quali mantenute in vita per mettere al mondo nuovi serbi da consacrare alla patria: fra loro anche delle suore (una venne crocifissa alla porta del suo monastero), a cui il Vaticano impose esplicitamente di partorire. E all’inizio del 1994, quando ai caschi blu canadesi si sostituirono quelli olandesi (in numero di 600), costoro non solo proseguirono a insidiare le donne di Srebrenica, ma rappresentarono pure i loro istinti sui muri del quartier generale, con dei graffiti tuttora conservati in una specie di casa degli orrori. Ed ecco una donna sodomizzata da un carro armato, un’altra costretta a un rapporto orale, scene di sesso fra uomini e animali, peni eretti con glande a mo’ di testa ghignante, più un corollario di messaggi raccapriccianti, mescolati a quelli dei serbi:
 


Il mio culo è come uno del posto: ha lo stesso odore.

Sono il tuo migliore amico: ti uccido per niente.

Uccidere è il mio business. E il mio business è buono!

Niente denti? Ha i baffi? Puzza come la merda? …è una ragazza bosniaca!
 


La macabra festa olandese finì il 2 luglio 1995, quando le forze serbe decisero che era arrivato il momento di rompere gli indugi ed entrare a Srebrenica. Per quattro volte il comandante dei caschi blu Thom Karremans chiese l’intervento degli aerei della NATO, inutilmente: il modulo di richiesta, dissero, non era compilato bene. Alla quinta richiesta si mossero degli F-16, che volteggiarono sui cieli della Bosnia in attesa di ricevere l’ordine d’attacco, salvo poi dover tornare in Italia per fare rifornimento: avevano finito il carburante. Si alzarono anche dei caccia americani, ma si venne a sapere che non avevano trovato la strada per Srebrenica: puro cabaret. Alla fine fu una coppia di aerei olandesi a sganciare due bombette sull’esercito di Mladić, senza sortire alcun effetto se non la minaccia serba di uccidere l’intero contingente olandese. Che infatti si ritirò da Srebrenica tra il 6 e l’11 luglio, non prima di aver consegnato alle truppe serbe gli elenchi completi del personale di servizio nelle istituzioni locali, compreso l’ONU: per l’interprete De Hanna e per il suo collega Emir Suljagić, autore del libro Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, quella era la lista della salvezza e dunque avrebbero tentato di inserirvi il nome di un loro amico. Presentarono il documento al vice comandante olandese, Robert Franken, che però si accorse dell’inganno:

 

Franken rimise il foglio sul tavolo, allungò la mano, afferrò un pennarello rosa e – non posso credere che l’abbia fatto con un pennarello rosa, avrebbe dovuto essere nero – cancellò il nome, un uomo, una vita. Muhamed ‘Braco’ Nuhanović. Aveva 19 anni, e ancora oggi io incolpo me stesso, incolpo tutti noi, per aver messo il suo nome in fondo alla lista; forse Franken non l’avrebbe notato se fosse stato da qualche parte nel mezzo, nascosto fra i nostri; forse sarebbe vivo se il suo nome fosse stato appena uno, due, tre, cinque centimetri più in alto.

 

Infine, la catastrofe. L'11 luglio di vent’anni fa Ratko Mladić entrava a Srebrenica, annunciando alla tv serba di aver finalmente vendicato la presenza turca (ossia ‘musulmana’) nella regione. Terminò le ‘operazioni’ il 18 luglio e il 21 salutò il battaglione olandese, pronto a tornare a casa, con una festa a suon di alcol, balli e grandi abbracci. In mezzo, nella assoluta inerzia di USA, Europa, NATO e Nazioni Unite, uno sterminio preciso, geometrico, sistematico di 8.372 persone, documentato con orgoglio dalle famose ‘Tigri’ di Arkan. Ma il numero delle vittime aumenta ogni anno per l’instancabile ricerca dell’ICMP, l’istituto internazionale che ha l’infelice compito di ricomporre i resti umani del massacro, quasi tutti finiti in gigantesche fosse comuni. Con un particolare agghiacciante: i frequenti ritrovamenti di gambe in Bosnia e braccia in Kosovo. Perché in questa storia c’è anche chi ha percorso i Balcani sparpagliando pezzi di cadaveri.

Nel 1997 la Caserma ‘Monte Pasubio’ chiuse i battenti: i profughi, che da quel lontano 1992 erano transitati senza soluzione di continuità fino a toccare il numero di 1.500, se ne andarono per sempre da Cervignano. Alcuni però rimasero, costruendosi una famiglia nella mia cittadina. Ed è a loro che dedico questo articolo, conoscendo il senso di colpa che li divora: quel micidiale complesso del sopravvissuto che può rovinare una esistenza intera. In quello stadio terminale dell’umanità che sono state le guerre nella ex Jugoslavia, loro rappresentano la possibilità di un nuovo inizio:
 

L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. "Initium ut esset, creatus est homo", "affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo", dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo.
Hannah Arendt

 



 

 

Oltre agli articoli, ai libri e ai collegamenti ipertestuali inseriti nell’articolo, su Srebrenica segnalo:
- l’eccellente monologo di Antonello Piroso (www.youtube.com/watch?v=s19NSuzZEJc
- lo spettacolo teatrale Souvenir Srebrenica (www.youtube.com/watch?v=2gDiqZUJIis)
- un reportage appassionante di Lilli Goriup (www.chartasporca.it/slavo-cielo-del-sud-pieno-di-grazia/#respond), che mi ha in parte ispirato
Per un quadro completo di tutte le guerre nella ex Jugoslavia, il documentario più importante resta quello realizzato dalla BBC nel 1995: www.youtube.com/watch?v=oODjsdLoSYo


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