Il maschilismo della bellezza
L'azione di Cheap a Bologna e la questione della donna nell'arte, dal manifesto delle Guerrilla Girls a Silvia Calderoni
In questi giorni a Bologna si sta tenendo una vera e propria mostra a cielo aperto, promossa dal collettivo Cheap, intitolata: “La lotta è FICA”. La città è il luogo perfetto per accogliere le opere, con le sue tinte urban ad ogni angolo di strada, i portici che omaggiano le artiste esibendo le opere come in un museo e lo spirito universitario sempre attivo di cui è impregnata – quasi gridasse alla rivoluzione. Il progetto di poster art, nato per rappresentare il femminismo attraverso i lavori di 25 artiste, segue le proteste degli ultimi mesi. «Non siamo certe che la difesa del privilegio bianco maschile e coloniale si fermerà alla schiera dei bimbi di Montanelli che si stanno stracciando le vesti, argomentando che lo “stupro va contestualizzato”», affermano le artiste. «Temiamo invece che non solo assisteremo a scene indegne del genere ogni qualvolta un simbolo dell’oppressione verrà contestato ma che le stessa situazione si ripeterà quando cercheremo di produrre un immaginario critico in opposizione a quello sopra citato». È ciò che è accaduto a Silvia Calderoni, apparsa in un manifesto che la ritrae nuda con sei seni e la scritta Così è (se mi pare), e subito tempestata di insulti su social e testate.
Una questione, quella del rapporto del pubblico con il nudo femminile, che ricorda e porta con sé un altro interrogativo: “Do women have to be naked to get in(to the Met.) Museum?” – le donne devono spogliarsi per entrare in un museo? Frase tratta dall’omonimo poster datato 1989, realizzato dalle Guerrilla Girls e portato in Italia proprio dal collettivo bolognese nel 2017. Il manifesto originale ritraeva una parodia de La grande Odalisca di Ingres a cui è stata apposta una testa di gorilla sul capo e recitava: «meno del 5% delle artiste nella sezione arte moderna sono donne, ma l’85% dei nudi sono femminili». Modificato nei numeri per stare al passo coi tempi – il 5% e 85% nel 1985, il 3% e 83% nel 2004, il 4% e 76% nell'ultima versione – a più di trent’anni di distanza pone una domanda ancora attuale. Sempre più gallerie, in risposta a questa domanda, cercano di avere un occhio di riguardo per l’arte made by women. Per citarne una, la Saatchi Gallery a Londra può dichiarare con orgoglio che metà degli artisti che ha in catalogo sono donne, di aver ospitato mostre quali “Refuse to be the muse” e progetti come “100 Voices, 100 Artists”, serie che s’impegna a dare voce alle donne durante il Women’s History Month.
Molte altre le cause portate avanti a Bologna dalle attiviste: violenza di genere, antirazzismo, intersezionalità, sex positivity e body positivity, ormai caposaldo della lotta femminista. Proprio in virtù di questo il poster delle Guerrilla Girls ritorna alla mente. Non è tanto il 4%, pur motivo di giuste battaglie e rivendicazioni, a catturare l’attenzione, bensì quel 76% che adorna le sezioni del Metropolitan di New York. La denuncia sociale è palese: le donne nell’arte sono oggetto e non soggetto. Lo diceva già Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso, all’interno della sua lettera indirizzata ad André Breton.
Breton non parla della donna in quanto soggetto. [...] Verità, Bellezza, Poesia, essa è Tutto: una volta di più essa è tutto sotto l’aspetto dell’Altro. Tutto tranne sé stessa.
Le prime raffigurazioni del corpo femminile risalgono al paleolitico e diventano territorio in cui la donna per secoli è stata vastamente rappresentata. Mettendo in risalto attributi quali fertilità (la Venere di Willendorf), grazia ed eleganza (la Dama con l’ermellino di Leonardo) purezza e castità, sensualità (Amor sacro e Amor profano di Tiziano) ed esprimendo la necessità di costruirvi sopra dei feticci, nasce il concetto di donna musa. Sebbene artisti come Schiele e Courbet restituiscano dignità ai corpi femminili, disegnandone, oltre le naturali pulsioni, la concretezza e le inquietudini, entrambi destano scalpore nel pubblico del loro tempo. Sorge spontanea una domanda: quanta responsabilità è da attribuire al nostro patrimonio artistico nel veicolare l’immagine della donna che tanto critichiamo?
Perché quando si parla di bellezza, raramente lo si fa declinando la questione al maschile (basti pensare a come il mercato della moda o della cosmesi abbia un target in predominanza femminile), questo è dovuto ad una minor pressione esercitata dalla politica dell’apparire sugli uomini. Piuttosto quando ci sfiora l’immaginario della bellezza, la si idealizza sempre (o quasi) all’interno di un corpo femminile e la si tratta come si farebbe con un simulacro. Sempre citando Simone De Beauvoir:
Per Breton la bellezza non è un’immagine che si contempla ma una realtà che si rivela – e dunque esiste – [...] al mondo se non attraverso la donna.
Si ricercano quindi dei criteri pseudo oggettivi, si decanta l’armonia delle forme, le proporzioni impossibili e classiche, i valori morali e gli aspetti allegorici e questo accade perché il metro di giudizio a cui si fa riferimento è sempre una sorta d’identità storico culturale. La bellezza di conseguenza diventa un elemento che prende in considerazione fattori come la riproduzione di certi modelli estetici ed etici.
Per esempio, tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento i canoni della bellezza femminile cambiarono radicalmente. Figure muliebri pallide, diafane, dai seni appena accennati, furono soppiantate da dame in carne, con fianchi larghi, curve generose, e visi dalle labbra e dalle gote color vermiglio. Ne conseguì una produzione che strizzava l’occhio a un velato erotismo, conservando il rigore mortificante tipicamente cristiano. La Nascita di Venere di Botticelli è un esempio limpido di questa concezione, ancora oggi annoverata tra le massime espressioni della bellezza femminile. Anche qui, l’ideale di bellezza si associa a una dimensione morale, come dimostra la posizione della venus pudica – la folta chioma e la discrezione delle mani ne celano le nudità – la cui unica colpa è quella di “nascere”.
L’arte crea quindi dei precedenti in cui immedesimarsi basati su studi che definiscono cosa è armonioso e cosa no, cosa è giusto e cosa non lo è. L’assenza in parallelo d’immagini tese a diversificare questa idea di bellezza biasima ed impedisce ad un’ampia fetta di popolazione la possibilità di riconoscersi nei criteri di bellezza non classici. Non sono nuovi infatti moti che si battono per una maggiore rappresentatività, soprattutto etnica, all’interno dell’arte figurativa occidentale, in cui non se ne trova traccia se non in modo caricaturale e fortemente stereotipato.
Se quindi i criteri di bellezza proposti dall’arte sono percepiti come impossibili, pure l’immagine che avranno le donne della bellezza somiglierà più ad un immaginario utopico (o distopico). I media tradizionali e i social network, che costantemente ci bombardano con immagini di corpi femminili, non ci vengono in aiuto.
Seguendo i più popolari utenti di Instagram, vediamo standard di bellezza ed canoni estetici molto convenzionali.
Lo afferma Alice Marwik, ricercatrice presso la Fordham University, indicando come sia questa particolare attenzione per l’apparenza ad attirare le donne sul sito. La piattaforma, proprietà di Facebook, registra infatti un traffico prevalentemente femminile (58% in rapporto al 42% maschile). Insomma se prima la televisione o le riviste periodiche erano i principali veicoli di servizi fotografici, sontuosi gala e sfarzosi red carpet, adesso questi sono facilmente reperibili dal proprio telefono, a colpi di tap e swipe. Teniamo conto oltretutto che lo smartphone ormai è diventato uno strumento assolutizzante della nostra quotidianità e le donne in media trascorrono tre ore al giorno sui social, una in più rispetto agli uomini secondo l’Encyclopedia of Information Science and Technology, e quello che può essere equivocato per un banale passatempo può facilmente trasformarsi in un’ossessione. Lo dice anche uno studio del Center for Addiction and Mental Health dell’Università di Toronto che, preso un campione di donne eterosessuali, ha dimostrato che quest’ultime sono maggiormente stimolate da immagini di corpi femminili rispetto a quelli di tipo maschile. Un uroboro secondo Rachel Simmons, proprio perché le ragazze vengono cresciute dicendo loro che verranno valutate per la loro bellezza.
Tutte vogliono essere la più bella ragazza dentro alla stanza [...] forse quello che ha fatto Instagram è stato permettere a chiunque di partecipare alla competizione.
Il fatto che gli estratti di Simone De Beauvoir citati sopra siano tratti dalla terza parte del libro I miti è emblematico. L’arte per secoli ha mitizzato il corpo femminile, attribuendogli caratteri morali e presentandolo a seconda delle norme estetiche vigenti. Fortunatamente, già dallo scorso secolo il dibattito sull’argomento ne ha rivelato l’assurdità. Frida Kahlo, che pure conserva nei suoi dipinti un rapporto morboso con il suo corpo, è forse il riflesso più limpido di questa conversazione. «L’arte di Frida Kahlo è un nastro attorno a una bomba», così la definirà Breton, colpito a tal punto dalle sue opere da collaborare all’esposizione “Mexique” tenutasi a Parigi nel 1939. Il fisico martoriato, gli aborti, la bellezza non convenzionale, la politica, il folklore messicano, il matriarcalismo, sé stessa come soggetto, tutto ciò è trasposto senza alcuna vergogna sopra la sua tela. Motivo per il quale, nonostante il forte etnocentrismo di cui soffre la società occidentale, l’artista gode oggi di considerevole rilevanza e spessore, forse anche perché la sua figura è in grado di confutare la validità di alcuni temi fondanti dell’arte e della rappresentazione femminile sedimentati nei secoli.
Cosa dovremmo fare, quindi? Mettere completamente in discussione il nostro patrimonio artistico culturale? Non necessariamente, sicuramente interrogarsi, parlarne, educare in tal senso l’arte. Il caso di Silvia Calderoni, l’attrice vessata per aver prestato il volto alla campagna di Cheap, rappresenta l’ennesima opportunità da cui possiamo ripartire, magari imparare qualcosa. «Il body shaming è una pratica pesante da subire, vi propongo dunque, sulla base di questa esperienza, di non rispondere con la stessa moneta» ha risposto rivolta agli insulti giuntele in questi giorni da parte di giornalisti, esponenti politici e privati cittadini: «uomo con le mammelle», «trash osceno» e «oltraggiose scempiaggini». Il collettivo mostra la sua vicinanza nei confronti della Calderoni, ribadendo e rivendicando le sue posizioni su queste tematiche sociali, considerate scomode, che ha voluto portare all’attenzione di tutti nel tentativo, condiviso, di sollevare le questioni che ne derivano e discuterle all’interno della società. Certamente richiederà tempo, ma come direbbero in questi giorni a Bologna: Nothing comes Cheap.
Fotografie di Michele Lapini
Cortesia del collettivo Cheap
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