Il futuro del Tibet

Perché la reincarnazione del Dalai Lama può cambiare il destino della Belt and Road Initiative cinese

Quest’anno si celebrano 60 anni dalla Rivoluzione Tibetana, un episodio cruciale per la storia dell’Asia. Nel marzo del 1959, una rivoluzione scoppiò a Lhasa, capitale del Tibet. Il casus belli, un fatto apparentemente banale: Tenzin Gyatso, attuale segretario del Dalai Lama, fu invitato ad uno spettacolo teatrale dale autorità cinesi assieme al Dalai Lama. I militari gli intimarono di partecipare rinunciando alla scorta e senza nessuna cerimonia pubblica per la processione del Dalai Lama dal palazzo al campo, come invece era tradizione in Tibet. In città si diffuse l’idea che la manovra in realtà fosse un piano per rapire l’autorità religiosa. Dopo una rivolta durata una settimana, alcune scariche di proiettili furono sparate sull’abitazione del Dalai Lama, portando l’allora 21enne a decidere di esiliarsi. Infatti, l’esilio ha rappresentato l’unico modo di continuare ad esercitare il suo dovere di leader spirituale per la popolazione tibetana, poiché il regime comunista aveva già cominciato una dura politica di repressione che considerava la pratica buddhista come “reazionaria”, costringendo i cittadini a prendere parte ad un processo di rieducazione e sinizzazione. Da allora, il Dalai lama e più di centomila tibetani vivono a Dharamshala, una città dell’India settentrionale situata al confine con il Tibet.  

Tuttavia, ad oggi la comunità internazionale è preoccupata da quale sarà il destino dei tibetani una volta che l’attuale Dalai Lama, che con 83 anni si avvicina alla fine del suo mandato, dovrà reincarnarsi nel prossimo Lama, il quindicesimo. Infatti, secondo la dottrina buddhista, la reincarnazione del Lama dovrebbe essere trovata dal Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del Tibet. Questa figura viene normalmente individuata in tenera età dal Dalai Lama, per poi essere educata al fine di ricoprire quello che è la seconda più alta carica dello stato tibetano (ricordiamo che, originariamente, il buddhismo tibetano amministrava lo stato, di conseguenza il Tibet funzionava come una ierocrazia). Nel lontano 1995, il piccolo Gedun Choeki Nyima, di soli sei anni, fu individuato dall’attuale Dalai Lama come prossimo Pachen Lama. Tuttavia, alcuni giorni dopo l’identificazione, il piccolo venne fatto sparire assieme alla sua famiglia dalle autorità cinesi, che al suo posto identificarono un altro Pachen Lama, fedele al Partito, come legittimo.


Di conseguenza, al momento della reincarnazione del Dalai Lama, sorgerà un problema prettamente politico: da chi sarà scelto il suo successore, dalle autorità tibetane in India o dal Panchen Lama cinese? Secondo le regolamentazioni della Repubblica Popolare Cinese, l’incarnazione deve «essere conforme alle leggi» e «soggetta ad approvazione da parte delle autorità», a significare che attraverso il nuovo Lama il governo centrale spera una volta per tutte di avere sotto controllo il Tibet non solo politicamente – attualmente è governato dall’Amministrazione Speciale dipendente da Pechino – ma anche spiritualmente, preservando un’immagine di un regime tollerante e rispettoso nei confronti delle minoranze. L’obiettivo di Pechino è cercare di rendere il Tibet stabile, poiché la regione occupa una parte cruciale della Belt and Road Initiative (BRI), il progetto economico-politico più ambizioso degli ultimi cinquant’anni.
 

Il governo centrale spera una volta per tutte di avere sotto controllo il Tibet non solo politicamente ma anche spiritualmente, preservando un’immagine di un regime tollerante


L’instabilità in Tibet è dovuta non solo all’esistenza di minoranze etnico-religiose poco tollerate da Pechino, ma soprattutto dal suo sottosviluppo: nonostante un tasso di crescita del 9,1% nel 2018 (contro una crescita nazionale del 6,6%), il pil pro capite si classifica terzultimo tra tutte province cinesi. Data la sua posizione geografica favorevole, una vera porta di ingresso all’Asia centrale e confinante con India, Buthan, Nepal e Myanmar, il governo cinese ha cercato di porre il Tibet al centro della BRI con l’obiettivo di farne il corridoio attraverso il quale ridirigere i flussi economici verso l’Ovest. Nuovi progetti infrastrutturali legati alla BRI in Tibet porterebbero infatti una riduzione dei costi di transazione, con un miglioramento all’accesso ai mercati internazionali. Inoltre, il Plateau Tibetano rappresenta una vera ricchezza in risorse naturali, ospitando il più esteso deposito di uranio al mondo e importanti reserve di acqua. Su questo punto in particolare è evidente come la stabilità politica del Tibet sia di primaria importanza per Pechino, poiché garantirebbe alla Cina la possibilitá di ridirigere i fiumi tibetani verso il nord del paese, che ad oggi soffre di una seria scarsità di acqua per i suoi cittadini ed industrie. Insomma, il Tibet rappresenta una miniera d’oro per la Cina, che in pieno slowdown economico necessita constantemente di risorse.

Un altro grande rischio al quale la BRI in Tibet deve far fronte è la sostenibilità: il territorio tibetano è impervio, caratterizzato da gole e montagne che superano i cinquemila metri. I progetti ingegneristici come le autostrade e ferrovie che connettono Lhasa con Kathmandu sono tra i più costosi attualmente realizzati, in quanto il clima e l’orografia rendono obbligatorio un continuo intervento per permettere ai beni e alle persone di transitare in sicurezza in tutte le stagioni dell’anno. Finanziariamente, questo è un rischio da non sottovalutare per i cinesi: il cambiamento climatico e la conseguente erosione delle fondamenta (spesso con una grande componente glaciale) sulle quali poggiano i viadotti, oppure semplicemente frane e smottamenti, potrebbero causare una perdita economica enorme, e ripercuotersi finanziariamente su tutti i progetti BRI a livello mondiale. Infine, anche se la BRI si ripromette di beneficiare anche l’economia locale, pochi sono ad ora i risultati: dati ufficiali stimano che almeno il 60% del GDP creato dalle infrastrutture abbia beneficiato il Nepal, principale destinazione dei beni cinesi, che poi verranno trasportati verso l’India e, ancora, il Medio Oriente. 
 

Un grande rischio al quale la BRI in Tibet deve far fronte è la sostenibilità: il territorio tibetano è impervio e le autostrade e ferrovie che connettono Lhasa con Kathmandu sono tra le più costose attualmente realizzate


Tutto questo a scapito della popolazione locale, che è spesso costretta a migrare in India perché privata dei suoi territori o più semplicemente vive nella penuria. Non c'è bisogno di dire che l’India, le cui relazioni con la Cina non sono tra le più floride, nutre molte preoccupazioni riguardo non solo alla migrazione massiva di tibetani dentro i suoi confini, ma anche dalla pericolosa estensione del corridoio economico tibetano fino a quello sino-pakistano (il CPEC), altro progetto BRI che, unito a quello tibetano, accerchierebbe strategicamente l’India. In un contesto regionale sempre più ostile, assicurarsi un Dalai Lama favorevole agli interessi cinesi è la priorità assoluta per Pechino: il Tibet è lo snodo centrale che permette alla Via della Seta terrestre di uscire fisicamente dalla Cina. Una situazione, quella tibetana, che non manca di dimostrarci che la Belt and Road Initiative non sarà mai un progetto puramente economico, per nessuno dei paesi che hanno deciso di aderire.


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