Il fuoco non scalda
Al riparo nel bosco in fuga da un’apocalisse di non morti, un racconto dal concorso letterario Petrarca.fiv 2023
TUM
Hai pulito il fucile? Sì. Bene.
Hai spolverato casa? Sì. Bene.
Hai controllato le scorte in cascina? Sì.
E l’acqua? Sì. Bene.
Hai tutto quello che ti serve? Sì.
Un’ultima cosa: giù. Giù hai sistemato? Sì.
Allora è tutto a posto.
È arrivato un uomo, ieri: fuggiva dalla città, come tutti. Ti ha raccontato di un virus, di morti che mangiano i vivi, ha detto che è un esperimento segreto andato storto, che i governi hanno insabbiato tutto, ha detto che cercherà riparo sui monti. Ma i monti non sono posto per gente della città. Lo scoprirà presto. Il fuoco dei monti non scalda, esiste solo per sé; l’acqua non disseta, la terra non ha orecchi per il pianto degli uomini. Quell’uomo intimorito da virus e governi non troverà alcuna salvezza nei monti.
Prendi un bicchiere, lo riempi di vino fino all’orlo. Lo porti alle labbra. Il liquido tracima dal bordo, bagnandoti la barba, gocciolando sui vestiti; il bianco s’imbruna e ti sporchi come un bambino. Sapevi che riempiendolo così sarebbe successo, ma l’hai fatto lo stesso, perché per i vecchi è l’unico divertimento: ogni momento, provare a ricordare com’è essere bambini.
La coppia di tre giorni fa, invece, diceva che è una maledizione. Dio non vuole che il mondo vada avanti, e quindi ha chiesto ai morti di finirla qui, visto che i vivi tanto non lo ascoltano mai. Ogni tanto fanno finta, ma solo perché pensano che possa per un po’ tenerli al caldo. È questo che hanno detto: è colpa di Dio.
Butti giù quello che rimane del vino. Sorridi; ma forse – anzi: sicuramente – c’è un grumo di tristezza che ti offusca lo sguardo. A grandi passi vai verso la porta. Hai sempre avuto dei passi lunghi, da brigante o cacciatore, da chi sta sveglio per tutta la notte a girare attendendo qualcosa che non arriva. Una vittima, una bestia, un treno, un amore. Esci in veranda. L’aria è fresca. Pare un pomeriggio di primavera, ma è inverno. Però glie la lasci vinta a quell’impressione e ti godi il tepore. Ha il sapore di una quarantina di anni fa, quando anche tu vivevi in città, quando anche tu eri intimorito da virus e governi, e dalla gente che sciamava, sciamava senza sosta, che alla fine ci credevi pure tu a tutto quell’andare avanti e indietro, al parlare al lamento alla gogna, al dire per forza, che se non dici non sei, perché non c’è nulla di male nello stringersi in mezzo ad altre mille e mille persone – timorose come te – sperando di riuscire a strappare un lembo di calore.
Domani probabilmente arriverà qualcuno – una famiglia? un gruppo di adolescenti? – che ti dirà che quella dei morti è una cazzata. Ti diranno che non sono morti: sono solo disperati, diseredati dalla città, progenie del freddo dimenticata da tutti gli altri; neanche ci fanno caso quando gli passano accanto, hanno paura a incrociare il loro sguardo, temono di diventare vittime della pietà, che sì la pietà rende vittime, sempre, rende colpevoli, e allora non li si guarda, si fa finta che non esistano, perché non si è colpevoli, mai, mai, mai, ma se capita per caso che il tuo occhio li incroci non puoi neanche fare finta di niente, bisogna dare loro qualcosa, e dire grazie, perché ti liberano dalla colpa di provare pietà, hai lavato la tua coscienza: ora i disperati possono tornare a sparire, a essere morti. Morti o disperati. Per il mondo degli uomini non c’è alcuna differenza.
Prendi i grossi binocoli che penzolano a lato, attaccati di sghimbescio a uno dei robusti pali che tengono su la veranda. Li punti a valle, oltre le cime dei boschi, oltre questa radura dove le tue mani si sono prese cura di assi e mattoni rosicchiati dal ricordo e hanno rabberciato come potevano. Le mani erano quattro, allora. Solo due ne sono rimaste, ma continueranno a prendersi di cura di questo antro di nulla fino alla fine.
TUM
Hai pulito il fucile? Sì. Bene.
Hai spolverato casa? Sì. Bene.
Hai controllato le scorte in cascina? Sì.
E l’acqua? Sì. Bene.
Hai tutto quello che ti serve? Sì.
Un’ultima cosa: giù. Giù hai sistemato? Sì.
Allora è tutto a posto.
Ecco, laggiù, oltre questo silenzio di bosco, si vede la città. Si vedono fumi che si levano, ossa di edifici – forse fabbriche, forse casoni, non sapresti dire con precisione – nere come la fame, si vede desolazione, eco di grida spente. Nulla di nuovo.
Era passato un uomo con una bambina, circa quattro mesi fa. Diceva che era il caldo, il caldo fa impazzire le persone. Li hanno convinti così bene con le loro storie sui virus e le maledizioni, che alla fine ci hanno creduto. Ma erano film, erano libri, erano storie: come sono diventate così reali? È tutto nella nostra mente, diceva, solo che le crediamo troppo. Gli hai chiesto se andava sui monti. Lui ha detto sì. Non avete detto altro: gli hai dato vino, gli hai dato pane, un po’ di calore, poi lo hai lasciato andare. Gli avresti dovuto dire che lassù il fuoco non scalda, ma non lo hai fatto: non ti crederebbero, come non credono in Dio. Come quel santo, devono toccare la fede con le loro mani: imparando dal dolore, forse capiranno perché il fuoco non scalda.
Nulla di nuovo. Rientri in casa e vai in salotto. Sulla cassettiera in legno – l’avevi portata tanti anni fa da casa dei tuoi, ricordi? – ci sono le foto dentro le loro vecchie cornici. Non un filo di polvere. Ne prendi in mano una. La guardi, cercando di socchiudere gli occhi e lasciarti sfiorare dalla memoria. Era un inverno ben più gelido, quello. Tra tutti, solo tu non sei imbacuccato in un cappotto, con sciarpa e cuffia di lana. No: tu allora dovevi fare l’uomo, quindi lì, in maglietta, sorridente sulla neve. Probabilmente morivi dal freddo, ma non l’avresti mai ammesso. O forse no: forse mettevi la maglietta perché eri giovane, e il fuoco scalda i giovani da dentro. Non ricordi quale delle due. Quel grumo di tristezza ti si scioglie negli occhi. È che tu ti dimentichi di tutto. Ma come pensi di riuscire a prenderti cura della casa? È che tu, per qualche motivo, hai sempre trovato più facile prenderti cura delle persone. Per quanto faccia molta più paura. Ma sono cose che ti vengono in mente appena le vedi… lo sai che se non ci stai dietro qua non ci possiamo vivere. Sì, sì, certo che hai ragione, ma io mi dimentico. Bisogna che me lo ricordi. Ogni volta? Ogni volta. Ma sempre? Sempre. Guarda che se è sempre, quando muoio torno indietro solo per ricordartelo. Sì, sempre: torna. È che io mi dimentico sempre tutto. Senza di te cosa diventa questa casa?
TUM
Hai pulito il fucile? Sì. Bene.
Hai spolverato casa? Sì. Bene.
Hai controllato le scorte in cascina? Sì.
E l’acqua? Sì. Bene.
Hai tutto quello che ti serve? Sì.
Un’ultima cosa: giù. Giù hai sistemato? Sì.
Allora è tutto a posto.
L’improvviso bussare alla porta ti fa perdere un attimo la presa sulla cornice. Uno spigolo sobbalza sulla superficie del mobile, facendole fare un paio di giravolte in aria prima di schiantarsi a terra con un penoso fragore di vetri. Ti chini. Qualcuno bussa di nuovo, più forte. Tiri su la cornice: il vetro è infranto. Sfili la foto e l’appoggi sul mobile. Fai attenzione che non cada, appoggiata alla cornice di fianco. Poi afferri la scopa lì accanto. Un altro bussare. No: prima bisogna prendersi cura delle cose. Sempre. Spazzi i vetri tra le assi, li accumuli in un angolo e ci lasci cadere sopra la cornice ormai inutile. Ora puoi andare verso la porta.
Apri. Un uomo ti guarda da sotto la veranda. Ha la barba sfatta, ha il volto digrignante di uno sconsolato teschio, ha fantasmi negli occhi. Ma tu non ci credi ai loro fantasmi; troppo ovvi, imbastarditi, sono solo specchi che non scaldano, senza un passato, dimentichi di qualcosa di vivo.
«Entri pure».
L’uomo tituba e fa un cenno alle sue spalle. Ti sporgi, e dietro di lui vedi una donna, il volto secco, pallido, i capelli lunghi scuri. Non neri, solo scuri. È incinta. Ha addosso un maglione a strisce colorate, guanti, jeans, un berretto di lana con un curioso ponpon bianco.
«Entrate tutt’e due».
Gli fai strada dall’ingresso fino alla cucina, gli fai appoggiare i grossi zaini sportivi sul divano. Uno sbuffo di polvere si alza non appena li lasciano cadere.
«Andate sui monti?».
«Sì…».
L’uomo si guarda intorno come cercando qualcosa. Poi si ferma a fissarti.
«Sì, come tutti».
Sembrano entrambi terrorizzati.
«È arrivato l’esercito…».
La sua voce è concitata. Ogni poche parole prende un lungo respiro, come se riemergesse dal fondo del lago. Fa per togliersi anche il cappotto beige che indossa, poi ci ripensa.
«Ci hanno sparato addosso. Siamo… siamo riusciti a scappare. Io non so… guerra, dicono ci sia la guerra. Dicono che… internet non prende, non sappiamo niente… ci hanno sparato addosso. Cristo!... addosso ci sparavano…».
Non ti scomponi. Vai verso il camino, prendi un ceppo, lo infili nella sua bocca.
«Volete del vino?».
«Eh? No…».
Si volta a indicare la pancia della donna.
«No… è che queste… questi zombi – perché questo sono: zombi – è difficile distinguerli da noi. Per quello… per quello ci hanno sparato… Ma santiddio! Che sta succedendo?!».
Ti si avvicina, le mani congiunte davanti alla bocca, come se ti pregasse.
«Che sta succedendo?».
Secondo te, forse, la causa di tutto questo caos è qualcosa che ci siamo scordati. Ma non lo dici. Fai solo spallucce, mentre ti volti e tenti di accendere il fuoco.
«Quanto vi fermate?».
«Ah, no… no, no: al massimo un paio d’ore. Grazie. C’è un bagno?».
«Fuori, di fianco alla cascina. C’è una tinozza e un po’ di sapone se volete lavarvi».
«Grazie…».
Fa per uscire.
TUM
Si ferma. La donna sta guardando le foto sul mobile.
«Ma cos’era quel rumore?».
«Che rumore?».
«Come un colpo, da giù…».
Fai un gesto con la mano.
«Nulla di che. Le fondamenta. Con il freddo fanno così».
L’uomo ti guarda. Ti fissa con quei due fantasmi che ha al posto degli occhi. Lo guardi di rimando.
«No: quello era come un colpo. Come qualcuno che…».
Va alla parete. Appoggia l’orecchio.
TUM
«Eccolo! Ancora!».
Si mette in ginocchio, avvicina il volto al pavimento.
«Non dovevate andare in bagno?».
Ora il fiato dell’uomo è corto, eccitato. La donna fa per prendere la foto senza cornice sul mobile.
«No! Lasciala!».
Lei si spaventa e la lascia cadere. Lentamente, plana per terra a faccia in giù.
«Che cosa c’è qua sotto? Una cantina? Dov’è l’entrata?».
Ti chini a raccoglierla. La soffi, strofini con la manica, non deve rovinarsi non deve, è così che ti prendi cura delle cose?
«C’è qualcosa là sotto! Cosa c’è?».
Il tono dell’uomo ora è aggressivo. Ti si avvicina. Finge di scaldarsi, di non avere paura. Ha perso troppo laggiù, e questo rancore è solo la voce dei fantasmi che lo abitano. Ma non sono i fantasmi che t’impensieriscono: è la sua stessa paura a mandare in frantumi la delicata disciplina delle cose.
«Vi chiedo di uscire».
Non lo guardi neanche in faccia. Appoggi la foto dov’era prima.
«Cosa c’è là sotto?».
«Continuate per il sentiero. Ora. Fino ai monti».
Ti alzi, lui ti è appresso, il suo fiato sulla nuca, i pugni stretti, vai fino al divano, butti per terra gli zaini, allunghi una mano dietro i cuscini e prendi il fucile. Ti giri.
«Ho detto: uscite».
Lo punti prima su di lui, poi sulla donna. Lo tieni fisso su di lei.
L’uomo tituba. Fa due passi indietro e afferra con strana dolcezza la mano dell’altra. Rassegnato, si arrende al freddo.
«Andiamo».
Prendono gli zaini e li accompagni all’uscita. Gli indichi la via per andare sui monti. Quando ormai il bosco li ha inghiottiti, sospiri e torni in cucina. Prima cosa: rimettere al suo posto il fucile; dopo quando lo devi pulire non sai mai dove trovarlo. È sempre così, sempre. Poi il resto: spolveri, metti a posto le foto, butti i pezzi della cornice nel bidone fuori. Ti siedi accanto al camino. Lentamente, prendi un pezzo di carta, lo bruci con un fiammifero e lasci che la fiamma accarezzi i ceppi. A poco a poco, il fuoco divampa.
TUM
Hai pulito il fucile? Sì. Bene.
Hai spolverato casa? Sì. Bene.
Hai controllato le scorte in cascina? Sì.
E l’acqua? Sì. Bene.
Hai tutto quello che ti serve? Sì.
Un’ultima cosa: giù. Giù hai sistemato? Sì.
Allora è tutto a posto. Possiamo scaldarci.
Scritto per il concorso Petrarca.fiv 2023 dal tema “Le nostre impronte sul mondo”
In copertina uno scatto di Marcus Murphy
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