Il figlio dell'altra di Lorraine Lévy

con Emmanuelle Devos, Pascal Elbé, Jules Sitruk, Mehdi Dehbi, Areen Omari

Cosa succederebbe se, in via del tutto ipotetica, se per sbaglio capitasse di nascere nello stesso ospedale e i nostri nomi venissero scambiati? La mia vita diventerebbe la tua e la tua diventerebbe la mia. La vita che tu stai vivendo sarebbe dovuta essere la mia e quella che io sto vivendo sarebbe dovuta essere la tua, ma in fondo la vita di ognuno di noi  non è quella che avremmo dovuto vivere potenzialmente, ma quella che viviamo attualmente. Tuttavia appena dovessimo scoprire dell'errore, dello scambio, il terreno di senso su cui abbiamo costruito le nostre vite subirebbe un improvviso smottamento, ancora più critico se io fossi cresciuto in Israele e tu in Palestina (o viceversa). Siamo in procinto di un terremoto, la situazione è critica, ma l'importante è che ognuno di noi viva con amore e profonda immersione la vita dell'altro.

Scorrono in rotta verso l'ovvio i fotogrammi de Il figlio dell'altra, film della regista ed autrice teatrale Lorraine Lévy, che non abbandona mai la retta via dei buoni sentimenti. Joseph Silberg (Jules Sitruk) vive a Tel Aviv, Yacine Al Bezaaz (Mehdi Dehbi) è Palestinese, nato lo stesso giorno di Joseph in un ospedale dell'Haifa, dove nel 1991, durante i bombardamenti della guerra del golfo, un infermiera scambiò i due neonati. Due madri scoprono così di aver cresciuto un figlio che non è biologicamente il proprio, la crisi d'identità di due ragazzi adolescenti è accentuata dalla perdita dello status familiare d'appartenenza, due padri con principi etico-politici opposti, si ritrovano in casa un disertore involontario, il proprio figlio incarna improvvisamente i valori dell'Altro.
Ci sono tutte le premesse di contrasto che donano spessore alla vicenda umana, ma l'operazione perpetrata dal film sottintende una logica di riduzione di ogni conflitto, di livellamento di ogni contrasto davanti all' incontenibile forza dell'Amore, capace di superare tutte le difficoltà che il mondo esterno pone d'ostacolo all'individuo. Visionata, la tesi viene percepita come una scontata raffigurazione utopica, arrivando ai titoli di coda senza nient'altro che un'illogica conclusione.

Il peccato più grave del film è assolvere il mancato sviluppo critico dei temi affrontati utilizzando un pervasivo buon senso, teso a seppellire la profondità dell'analisi. Dallo scambio di due corpi neo-nati prende avvio la vicenda, dalla trasformazione interiore di una madre accortasi che il figlio cresciuto fino a quel momento non è carne della propria carne, donata invece, per errore, ad un'altra donna che si ritrova nelle sue stesse condizioni.
La complessa interiorità emotiva delle figure femminili non è tratteggiata a fondo - qualche sfumatura quando Yacine aiuta la madre biologica a raccogliere la spesa caduta a terra, i due si sfiorano e si abbracciano timidamente mentre Joseph si sofferma a guardarli da lontano. Prevale molto di più la remissività del ruolo di madre, effetto di quel senso d'accettazione incondizionato, topico della condizione materna, che pone davanti a tutto il benessere dei propri figli sorvolando l'assunto genetico che li rende in primo luogo tali. Evaporato l'iniziale rifiuto, ignorate le pulsioni fisio-psicologiche più problematiche, la tensione sensibile risolve su quell' “Amore Supremo” della madre verso il  (non proprio) bambino a cui essa ha donato le (proprie) energie ed attenzioni nella delicata fase di crescita.

Respira un abito più ampio la schematizzazione della relazione paterna, o per meglio dire, della relazione che intercorre tra i due pater familias, corrispettivi di un corpus sociale  contrastante. Se all'inizio si problematizza l'appartenenza del proprio figlio all' Altro, in ragione di trasgredite istanze sociali che questo mutamento porta all'interno della famiglia ed esporta nella comunità d'appartenenza, in seguito  questa condizione si semplificherà con la collimazione emotiva di due padri nei confronti dei propri figli; fondata sull'assunzione di responsabilità paterna quale portato psicologico imprescindibile della condizione adulta di genitore. L'analisi rimane nel quadro di immotivati buoni sentimenti - immotivati non perché non abbiano ragione di esistere e/o d'essere portati avanti, ma perché formatisi nei personaggi senza nessun fondamento sostanziale, al contrario, per puro motivo apparente – basta davvero intonare una canzone tipica del folklore palestinese perché la famiglia ritrovata da Joseph si apra indifesa alle sue buone intenzioni?

Yacine e Joseph si ritrovano a vivere un'esperienza di consistente straniamento interiore, figli allo stesso tempo di una società d'appartenenza di fatto e di una cultura d'origine di diritto contrastanti tra loro. Colpiti da questa duplicità di status in un momento delicato della loro esistenza, i due adolescenti si affaticano nella ricerca di un'identità personale. Barcollano tra una parte e l'altra del confine, annullandolo nel doppio statuto esistenziale che essi stessi rappresentano. La loro amicizia, la loro unione, così come il filo che unisce i rispettivi genitori, rappresenta la possibilità di convivenza tra Israele e Palestina; la loro decisione è la consapevolezza di volersi conoscere, di ignorare le differenze per affiliarsi ad entrambi i tessuti sociali, che infine li integreranno nelle loro trame attraverso l'amore materno, l'accettazione paterna e la consacrazione fraterna. La relazione tra Yacine e Joseph è ben costruita. L'amicizia dei ragazzi non soffre d'incredulità grazie all'età anagrafica in cui sono iscritti i personaggi, un periodo di vita che si porta ancora dietro i residui dell'ingenuità fanciullesca. È con Bilal (Mahmud Shalaby) però, che si scade nel buonismo. Il “fratello” arabo di Yacine rappresenta l'ultima roccaforte dell'intolleranza, l'impossibilità del compromesso. Egli si troverà ad accettare inspiegabilmente il rapporto tra i due solo perché consolidato e spontaneo e questo sarà l'input per un finale utopico ma elementare, dove il pensiero di Joseph si rivolge a Yacine con un monito pieno di buon senso ma di certo non illuminante.


«Sai cosa ho pensato quando ho saputo che la mia vita doveva essere la tua, ho pensato... ora che l'ho cominciata questa vita,
devo riuscire, perché tu sia fiero di me; e per te che vivi la mia vita Joseph è lo stesso, non la sprecare».


FRA 2012 – Dramm. 105' **


Commenta