Il fascino di Hannibal Lecter
Il rapporto tra cinema ed emozioni tra Il silenzio degli innocenti di Demme e Indiana Jones di Spielberg
Vi siate mai chiesti perché proviamo determinate emozioni di fronte alla visione di certi film? Il processo che permette allo spettatore di entrare in relazione positiva o negativa nei confronti di un personaggio è l’empatia, che determina la nostra risposta nei confronti del film e provoca, a sua volta, una nostra reazione. Un film permette così di analizzare anche il problema dei comportamenti morali dello spettatore, come accade ne Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991). Il nostro cervello reagisce e risponde agli stimoli visivi così come a quelli cinematografici; possiamo infatti evidenziare come all’atto della visione adottiamo standard e norme morali diverse rispetto a quelle quotidiane. Sorge quindi spontanea la domanda: perché certi personaggi che compiono atti orripilanti sullo schermo risultano simpatici o affascinanti?
Perché certi personaggi che compiono atti orripilanti sullo schermo ci risultanto simpatici o affascinanti?
La chiave di tutto è nella parola istinto. Vari studi hanno evidenziato come le norme morali si siano sviluppate in virtù di un meccanismo di sopravvivenza che ha spinto l’uomo, nel corso dei secoli, ad assumere comportamenti e a controllare i suoi istinti. È necessario quindi mettere le norme morali in relazione a fattori primordiali e istintuali rimasti latenti dentro di noi. Inoltre la predisposizione dell’uomo a stabilire dei legami e ad assumere comportamenti altruistici è radicata nel nostro patrimonio genetico. Ciò significa che, nei secoli, si sono stabilite delle norme morali non innate, frutto della nostra stessa cultura, per cui la natura emotiva dell’uomo e quel sistema di principi possono entrare in conflitto, obbligandoci a fare i conti con le tendenze innate che rimangono latenti in noi.
Moltissime pellicole mettono in scena attività che contrastano con le nostre norme morali e pongono quindi lo spettatore di fronte a dilemmi, certo non accettabili in toto perché del resto sono solo film, manufatti artistici e non verità mimetiche della realtà. Qualora questa presa di coscienza non avvenisse quel sistema di film di genere, con precise aspettative da parte del pubblico, collasserebbe all’istante. Ne Il silenzio degli innocenti il coinvolgimento proposto è apparentemente perverso: siamo infatti portati a parteggiare emotivamente per un personaggio che compie azioni sgradevoli e moralmente inaccettabili. La vera perversione sarebbe se il discorso filmico portasse a farci credere che il cannibalismo sia giusto, fatto che non avviene.
Il film lavora su diversi livelli di distinzione fra realismo e normali standard morali, il tutto letto anche sotto un profilo allegorico come suggerito dal titolo originale The Silence of the Lambs, “il silenzio degli agnelli”
Il film lavora su diversi livelli di distinzione fra realismo e normali standard morali, il tutto letto anche sotto un profilo allegorico come suggerito dal titolo originale The Silence of the Lambs – “il silenzio degli agnelli”, in relazione agli incubi della protagonista –, assumendo un significato più profondo del mero fatto narrativo. La pellicola diviene allegoria sulla figura dell’agnello che rimanda a una serie di riferimenti filmici ed evangelici, simboli di innocenza violata, per ristabilire la purezza nel mondo. Questa sottotrama viene mostrata nei ricordi della protagonista Clarice Starling (Jodie Foster) che legittimano e alimentano, ancor più, la lettura allegorica. Un altro elemento cardine è, sicuramente, quello del genere: la pellicola è un thriller, e questo produce nello spettatore un’ulteriore chiave di lettura che sottostà alle stesse dinamiche del genere. Il personaggio di Hannibal (Anthony Hopkins), a metà strada fra uno scienziato pazzo, perverso e mostro succhia sangue, rimanda a precisi stereotipi cinematografici noti e di successo che lo spettatore riconosce. Tutti questi elementi comunicano al pubblico una notevole distanza fra pellicola e realtà: spingono cioè a razionalizzare le nostre reazioni emotive nei confronti del film e a fare il tifo per un cannibale.
Al contrario, ne I predatori dell’arca perduta di Spielberg (1981) l’emotività che coinvolge lo spettatore è differente, e lo è quindi anche la sua risposta. Affinché le emozioni che il film vuole suscitare siano più efficaci, il nostro meccanismo fisiologico e cognitivo ci dota di strumenti che ci permettono di orientarci verso una determinata emozione. La mente e il corpo umano sono consapevoli che, in determinate situazioni, ci siano più probabilità di provare alcune emozioni: qui entrano in gioco da un lato il mood e dall’altro gli emotion marker. Il mood è uno stato preparatorio in cui sentiamo di essere sul punto di esprimere una particolare emozione, non è quindi un’emozione di per sé, ma è piuttosto un tensione verso. Gli emotion marker sono invece dei segnali che hanno lo scopo di suscitare brevi momenti emozionali, sostengono il mood e permettono al film di continuare a sollecitare emozioni, non con scopo narrativo, ma piuttosto per il “gusto” della narrazione stessa.
Gli emotion marker hanno lo scopo di suscitare brevi momenti emozionali, sostengono il mood e permettono al film di continuare a sollecitare emozioni, non con scopo narrativo, ma piuttosto per il “gusto” della narrazione stessa
Il film di Spielberg è esplicativo in questo senso: fin dalla prima sequenza vediamo Indiana Jones (Harrison Ford) che tenta di rintracciare un antico manufatto superando una serie di prove. L’incipit ha soltanto una funzione emozionale e non è inerente alla storia successiva, piuttosto “intavola” il mood che la pellicola sosterrà grazie a una serie di emotion marker. Stabilendo quindi l’orientamento emozionale (il mood) del film ne deriva un proficuo mix fra divertimento e avventura, fra comicità e intrattenimento. Dopo i primi minuti di film alcuni rumori tipici della foresta, l’eroe sotto forma di silhouette e la luce che penetra a malapena ci presentano un mood di tipo avventuroso. A incrementare l’orientamento emozionale troviamo quello che abbiamo definito come emotion marker: alla vista di una statua indigena il personaggio ha una reazione emotivamente esagerata. L’atto di per sé non ha scopi narrativi, ma l’effetto di sorpresa produce una sorta di liberazione comica determinando nello spettatore una consapevolezza che la reazione sia effettivamente sproporzionata. Un altro momento forte è l’uso della frusta, ulteriormente sottolineato da un picco musicale seguito dal primissimo piano del protagonista. La sequenza intavola poi un mood pauroso, con l’inquadratura del teschio e l’effetto di suspense creato dallo scambio fra il sacchetto e il manufatto.
L’elemento dell’empatia gioca quindi un ruolo cardine in un determinato tipo di cinematografia. Il cinema d’intrattenimento fa del coinvolgimento dello spettatore uno dei suoi capi saldi, assegnando alla narrazione questo ruolo. Il silenzio degli innocenti e I predatori dell’arca perduta lavorano in modo da far scaturire in chi guarda una precisa risposta, al contrario di film come Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pasolini, 1975) o Funny Games (Haneke, 1997) nei quali il processo è totalmente orientato, in senso opposto, a porre una barriera emotiva fra il film e lo spettatore. L’abilità registica, che si esprima facendo leva su fattori istintuali al fine di parteggiare per un cannibale o in montaggi costruiti ad hoc al fine di orientarci verso un determinato mood, efficaci chiavi interpretative a livello emotivo. Del resto uno dei motivi per cui andiamo al cinema è provare determinate emozioni, fondamentali reazioni che appartengono alla vita umana, quindi non sentitevi troppo in colpa se provate simpatia per Hannibal.
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